El sacerdote

6 aprile 2004

Dopo l'appassionata difesa dell'omosessualità del precedente Los placeres ocultos, con El sacerdote De la Iglesia attacca energicamente una delle istituzioni che più la hanno perseguitata, la chiesa cattolica, mettendone in parallelo l'apparato repressivo con quello del regime franchista. Nonostante qualche cedimento narrativo, il regista colpisce il bersaglio focalizzando il racconto, come suo solito, sul dramma interiore di un singolo personaggio, la cui "passione" sentimentale è registrata con toni progressivamente caricati di eccessi melodrammatici, che arrivano a sfiorare la visionarietà. La crescente ossessione per la carne porta il protagonista a una sorta di tragicomica polimorfia sessuale, che gli causa stati improvvisi di eccitamento sempre più imbarazzanti, poiché lo costringono a confrontarsi con l'attrazione che prova per quei peccati che dovrebbe condannare e che gli vengono descritti in confessionale.
Eccolo dapprima scandalizzarsi di fronte a una donna che gli confessa di essere costretta dal marito a farsi sodomizzare - sommo peccato -, per poi scoprirsi attratto da lei fino all'ossessione. E attratto forse anche dalla stessa sodomia, visto che arriva in seguito a immaginare un suo giovane collega amoreggiare con un altro uomo. Ma il culmine viene raggiunto quando scopre di avere un'erezione davanti a un bambino di otto anni. Il prete confessa con crescente panico e imbarazzo le sue reazioni al suo superiore, che non sa far di meglio che sospenderlo temporaneamente dall'incarico. Per il prete è l'occasione di tornare in campagna, nei luoghi della sua infanzia, dove rievoca l'origine della sua repressione sessuale di fronte alla prorompente sessualità contadina dei suoi compagni, semplice e vitale, fatta di bagni collettivi al fiume, divertite gare di virilità e sodomizzazioni di papere. Incapace di sostenere la lotta tra fanatismo per i suoi principi religiosi e impulsi sessuali dall'ormai conclamata incontrollabilità, il prete sceglie di punire il corpo torturandosi e, infine, evirandosi con un paio di enormi forbici da giardiniere. Gli apici drammatici cui De la Iglesia conduce il racconto rivelano nel loro eccesso (soprattutto figurativo e simbolico) una faccia sarcastica, che si traduce in una condanna delle gerarchie cattolilche, anche attraverso l'ironia di certe scelte visive (come quella di scimmiottare, durante le cene in parrocchia, l'ultima cena di Leonardo). Il culmine del dramma, che sembra irreversibile, come spesso accade nel cinema di De la Iglesia è invece accorgimento retorico finalizzato a rendere il finale più liberatorio: il film si conclude, come già Los placeres ocultos, su un tocco di sano ottimismo, con il protagonista sorridente che, abbandonato l'abito talare e vistasi restituita (o meglio ricucita...) la propria virilità, parte alla scoperta del mondo secolare intenzionato a mettere su famiglia. L'uscita dalla Chiesa significa liberazione dalla persecuzione e dal terrore e scoperta di una sana sessualità: il sorriso finale ha tutto il valore di un primo orgasmo liberato da ogni senso di colpa.
Il film, purtroppo rarissimo come tutti i film del regista basco, gay dichiarato, viene sempre affiancato all'inglese Il prete, con cui in realtà ha poco da spartire: più utile sarebbe metterlo in relazione con lo splendido Huston di La saggezza nel sangue.
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