recensione di Mauro Giori
Cronache di poveri amanti
Cronache di poveri amanti, scritto da Pratolini nel 1946, è considerato un classico del neorealismo, con le sue vicende quotidiane degli inquilini di Via del Corno (dove Pratolini visse da bambino con i nonni), tra i quali si insinuano i veleni della Storia incarnati negli scontri tra fascisti e antifascisti, nella Firenze del ’25, che non possono lasciare indifferente nessuno, nemmeno l’ingenuo Ugo.
C’è però un personaggio che sfugge ai dettami realistici dei ritratti neorealisti, ed è quello della Signora, vecchia e ricca, temuta e riverita in tutta la via, che domina dal suo letto di malattia tramite la sua serva Gesuina. Che però non è solo la sua serva. La Signora la volle con sé, e tutta per sé, all’epoca in cui, non ancora vecchia, decise di ritirarsi dal mondo per lasciare di sé un ricordo giovanile segnato dalla bellezza. Fatti distruggere tutti i suoi ritratti, la Signora si ritirò dalla vita pubblica, e soprattutto dalle frequentazioni maschili, cercando da allora “consolazione nella complicità tenera e tiepida del proprio sesso” (p. 99). Consolazione incarnata prima nella tredicenne Gesuina, e poi, invecchiata ormai costei, nella più giovane Liliana, la cui fuga improvvisa, come “da un tetto coniugale” (p. 412), solo la giovane Aurora sa bene interpretare: “le è bastato ricordarsi la tentazione a cui la Signora l’aveva sottoposta anni fa, e associarvi l’intimità nella quale vivevano Liliana e la Signora” (p. 403).
La negatività del lesbismo si iscrive in una visione piuttosto personale degli affetti e dell’eros che Pratolini tratteggia lungo tutto il romanzo. Di pagina in pagina si susseguono rapporti sessuali piuttosto disinibiti, e non pone nessun problema al narratore (indistinguibile dall’autore implicito) il fatto che siano extramatrimoniali o adulterini. Anche la prostituzione è guardata senza condanne e senza patetismi. L’approvazione dell’autore/narratore viene meno laddove il sesso assume una connotazione brutale, viziosa, completamente slegata dal sentimento e piuttosto vicina a un trasporto irrazionale che la ragione non riesce a frenare, come nel caso del vecchio Nesi. Una simile riprovazione Pratolini la riserva al “pericolo dell’onanismo”, nei confronti del quale Bruno, definito “un ragazzo naturale” (definizione curiosa, ambigua ma rivelatrice), manifesta un “istintivo ribrezzo” (p. 465).
La stessa riprovazione colpisce senza indugi l’omosessualità. Nella Signora v’è un’ulteriore aggravante – dal punto di vista di questa singolare ideologia degli affetti e delle pulsioni - cioè il fatto che il suo lesbismo, a differenza ad esempio delle “vampe dei sensi” (p. 465) di Bruno, non ha nulla di “naturale”: è una scelta consapevole e voluta, una forzatura della Natura e della sua stessa natura. Il lesbismo viene quindi a essere uno dei tratti della perversione malvagia della donna (“Lucifero in persona”, p. 397), una perversione ritratta con i toni accesi del delirio superomistico, in forme addirittura mitizzate.
Quello della Signora è in effetti un personaggio complesso, che non conosce la stasi riservata alla purezza d’animo di Maciste, bensì un’evoluzione degenerativa che attraversa un duplice processo di mitizzazione e poi di demistificazione, tramite soprattutto le critiche corrosive di Gesuina. Anche se la Signora conserva qualcosa di eccessivo e di grandiosamente disumano anche nella sua decadenza di “belva” in preda a una “disperata follia” (p. 397).
In un ritratto di tanta perversione il lesbismo è una delle titaniche decisioni legiferanti della Signora: essa domina il suo mondo, ne è l’artefice, quindi ne detta anche le regole e ne gestisce ingressi ed espulsioni. Quando non potrà più farlo, essendo ormai paralizzata nel suo letto, ne soffrirà particolarmente.
Nel 1954 Carlo Lizzani ha tratto da questo romanzo un film, tecnicamente pregevole ma nel quale il ruolo della Signora risulta notevolmente ridimensionato (così come la sua grandiosa malvagità), e nulla si dice dei suoi gusti sessuali.