Improvvisamente l'estate scorsa

21 novembre 2004

Parker Tyler lo ha letteralmente distrutto nel suo Screening the Sexes, definendo il personaggio della Taylor "la donna più stupida mai vittimizzata da un omosessuale", la sua persecutrice come probabilmente lobotomizzata, la regia come televisiva e degna di una soap opera, e la storia priva di senso, non fosse altro che perché non serve portarsi una ragazza che mostri le tette per rimorchiare sulle spiagge caraibiche. Vito Russo, dal canto suo, ne ha paragonato il finale al Frankenstein di Whale per come Sebastian, l'omosessuale intorno al quale ruota l'intero film, viene presentato come un mostro e dato in pasto (letteralmente) ai suoi carnefici, senza nemmeno essere mai mostrato in volto.


Pareri piuttosto pesanti per un film scritto da due gay illustri (Tennessee Williams, autore del soggetto, un atto unico, e Gore Vidal, autore invece della sceneggiatura) e interpretato da un terzo, Montgomery Clift, senza contare la gay-friendly Liz Taylor.

Il carattere cupo e insieme stravagante del film è la conseguenza di tutta una serie di fantasmi e di angosce private delle varie figure coinvolte nella sua lavorazione.

Tennessee Williams all'epoca era messo piuttosto male: all'attivo aveva un padre violento (che lo derideva per la sua effeminatezza, cui si associava una certa attrazione per il travestitismo), una madre bigotta, un'adolescenza solitaria all'ombra della malavita, e al presente era depresso, si era dato alla droga e all'alcol, era entrato in terapia, non era contento della sua omosessualità che sarebbe divenuta di dominio pubblico solo anni all'inizio degli anni '70 con la pubblicazione della sua autobiografia Memoires, piena di dettagli sulla sua vita privata e sui suoi rapporti con giovani prostituti). Improvvisamente l'estate scorsa è per lui fondamentalmente un'esplorazione autobiografica dagli evidenti fini terapeutici. È del resto sintomatico dei problemi dello scrittore il fatto che nelle sue piece gli omosessuali di solito non sono presenti in scena, in quanto lontani o persino già morti prima dell'inizio dell'azione, come accade appunto in Improvvisamente l'estate scorsa, ma anche in Un tram chiamato desiderio (1947) e in Il gatto sul tetto che scotta (1954).

Montgomery Clift porta sul set la sua parte di disastri personali: era appena uscito dal fiasco di Non desiderare la donna d'altri e la sua esistenza era tenuta insieme per miracolo da assistenti e amici affettuosi. Clift raramente si presentava sul set sobrio, aveva lasciato a New York il suo nuovo fidanzato (uno stilista francese fallito, che nonostante la burrascosa relazione sarebbe rimasto con lui per i pochi anni che gli rimanevano ancora da vivere), e appena arrivato a Londra aveva trovato nel ventenne centralinista del suo hotel un amante appassionato. Mankiewicz era stato più volte sul punto di licenziarlo, ma la Taylor, che aveva voluto Clift per la parte, aveva puntato i piedi.

Certo Clift in condizioni normali sarebbe stato perfetto per il ruolo: con il suo sguardo dolce e affettuoso era l'incarnazione del medico protettivo e compassionevole, che non a caso tornerà a interpretare tre anni dopo vestendo i panni nientemeno che del padre della psicanalisi nella biografia diretta da John Huston. Ma il suo lavoro in Improvvisamente l'estate scorsa risente della sua situazione disastrata e lo si vede in scena fisicamente provato, al punto da suscitare ben più commozione della sua paziente a rischio di ingiusta lobotomia.

Elisabeth Taylor, dal canto suo, lasciava a casa il quarto marito, appena sposato, e soppesava già l'idea di procurarsene un quinto, mentre la Hepburn lasciava a casa un marito alcolizzato e malato (Spencer Tracy) e compensava la lontananza mettendo a frutto la sua esperienza di infermiera domestica cercando di aiutare Clift, senza grande successo e ignorandone (pare) l'omosessualità, della quale era stata tenuta all'oscuro per evitare ulteriori problemi: si dice che fino alla fine della lavorazione nessuno le avesse fatto notare di cosa parlasse effettivamente il film, e che in seguito si sia rifiutata comunque di credere che due uomini davvero potessero fare certe cose....

Mankiewicz aveva la sua parte di problemi per via di una malattia alle mani che lo tormentava e non lo metteva dell'umore migliore per affrontare i mille problemi che si sarebbero presentati sul set di quello che sarebbe stato forse il suo film più sfortunato, per quanto riguarda le vicissitudini produttive, con l'eccezione ovviamente del catastrofico Cleopatra. Anche se Improvvisamente l'estate scorsa ha poi trovato i suoi estimatori, nessuno è mai stato disposto contestare l'idea diffusa che si tratti di un'opera minore nella produzione di Mankiewicz. Ma anche se l'esito non raggiunge i livelli di Eva contro Eva, Gli insospettabili, Masquerade, Lettera a tre donne o La contessa scalza, ci sono momenti nei quali si sente la mano di questo straordinario regista dal cinismo gentile, capace di vestire con l'eleganza di una forma impeccabile film crudelissimi e sardonici.


Il film è un'estenuante discesa negli inferi delle rimozione: il buon medico Clift deve lottare contro pregiudizi, fobie, architetture dell'inconscio che mirano a nascondere la verità e cercano di stordire il protagonista e lo spettatore. Vidal, che non è famoso per la sua modestia, ha rivendicato per sé tutti i meriti - e solo quelli - del film, al di là dei tagli subiti dalla censura, ma la sua sceneggiatura in realtà non riesce a portare l'intreccio oltre lo psicanalismo manualistico (trauma, rimozione e patologia conseguente, superamento della patologia grazie alla rievocazione del trauma) tipico del coevo cinema hollywoodiano (pensiamo all'Hitchcock di Marnie e Io ti salverò, o al Lang di Dietro la porta chiusa). E, probabilmente per gli intenti autoterapeutici che gli attribuiva Williams, troviamo chiamati a raccolta tutta una serie di luoghi comuni sull'omosessualità in voga in quegli anni (padre assente, madre opprimente, l'omosessuale come esteta, l'omosessualità come malattia, ecc.).


Con buona pace di Vidal, non è certo per l'intreccio che questo film riesce ancora a rimanere nella memoria, ma è proprio per i suoi eccessi visivi barocchi e onirici. Katharine Hepburn che entra in scena scendendo dal trono del suo ascensore, nel salone della sua villa abbarbicata intorno a un giardino-foresta talmente delirante da fare invidia alla lussureggiante serra de Il grande sonno, è un pezzo memorabile del kitsch hollywoodiano. Se le scene in manicomio sono contrassegnate da una cauta visionarietà, gli eccessi barocchi del film esplodono proprio nella sovraccarica scenografia della giungla-giardino che, simbolo dell'inconscio, custodisce i segreti di famiglia - cioè la casa di Sebastian, inglobata dentro l'enorme utero della villa materna - e allo stesso tempo è luogo di seduzione erotica.

Certo poi a ben vedere dati oggettivi di Sebastian non ne abbiamo, a parte la sua mediocrità di poeta, che serve ovviamente a smontare il quadro idealizzato che di lui ci restituisce la madre. Tutto il resto ci deriva da un altro punto di vista soggettivo, che è quello della cugina. È lei che, pur con compassione, lo dipinge come un mostro, ed è attraverso il filtro dei suoi ricordi che Sebastian si materializza in scena smembrato dalla macchina da presa - ancora prima di esserlo davvero da parte dei suoi carnefici - che non lo mostra quasi mai per intero, e mai frontalmente.

Se Sebastian è uno dei simboli più memorabili della pluridecennale rimozione dell'omosessualità esercitata da Hollywood tramite il Codice Hays, il film finisce insomma con il mettere sotto accusa anche famiglia e matriarcato, e rientra perfettamente nella visione di Mankiewicz della vita come estenuante lotta per la sopravvivenza (riletta come necessità di sopraffazione) giocata tramite la parola, strumento di inganno e di rielaborazione della realtà. Alle parole, nei film di Mankiewicz, non si deve mai credere, ed è anche per questo che, nonostante tutti gli sforzi del soggetto, Sebastian non è solo un mostro ma anche, in parte, una vittima.


Con una consapevolezza diversa in Williams e in Vidal, e una qualche dose di autoironia, il film avrebbe potuto essere un buon prodotto camp, e invece si prende tragicamente sul serio e scivola nel kitsch più sfrontato. Ma è proprio per questo che mantiene ancora un suo fascino, sia pur un po' sinistro.

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titoloautorevotodata
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