recensione diMauro Fratta
Amore mi faccia vivendo penar
Il romanzo di Edmund White, prontamente tradotto in italiano a brevissima distanza dall'uscita in patria, ha per protagonista un ragazzo di nome Jack Holmes che è proprio così: lo angoscia quasi più essere superdotato che essere gay; anche perché nel comprendere il suo orientamento sessuale appare notevolmente tardigrado. Ci arriva un po' in fretta solo dopo il trasferimento a New York: e qua il lettore affezionato di Edmund White già pensa: "Nooo! Ancora un romanzo di Edmund White con l'ingenuo ragazzotto gay e medioborghese del Midwest che intorno al 1960 si trasferisce a New York, acquista consapevolezza, trova uomini come se piovesse, s'innamora, poi arrivano Stonewall, l'AIDS, il riflusso, l'elaborazione del lutto, eccetera!"; ché, riconosciamolo pure!, White ha sfruttato questo tema fino all'osso, benché in modo molto intelligente e traendone anche grandi libri.
In realtà però il tema qui c'è, ma in sottofondo. Per creare un filtro rispetto a una materia già sfruttata e notevolmente autobiografica, l'autore usa la terza persona nella prima e nella terza parte del romanzo, dove il protagonista è appunto Jack Holmes; soltanto la parte centrale è raccontata in prima persona, ma da Will, l'amico di Jack, che è eterosessuale: rispetto a gran parte delle precedenti opere di White, perciò, il tono è qui più distaccato. Anche la storia americana, sia quella politica sia quella dei costumi, fa ingresso nelle vicende a mo' di eco distante, e l'interesse rimane perciò in prevalenza psicologico e intimistico. La scelta, con ogni probabilità, era obbligata: con una maggior adesione personale si prospettava il rischio di riscrivere libri già scritti, di comporre l'ennesima variazione sul tema; tuttavia questa relativa presa di distanza dello scrittore dalla materia narrata raffredda in certi passi anche la scrittura. Perfino i due protagonisti risultano alla fine due individui un po' scialbi e indefinibili: ma è White a volerli così, proprio per gettare uno sguardo sull’evoluzione dell’etica privata e degli stili di vita nella New York degli anni Sessanta e Settanta seguendo le vicende di due uomini per nulla speciali, un gay e un etero come tanti. Se il tono un po’ remoto, ovattato e stanco rende il romanzo meno poetico della Sinfonia dell’addio o dell’Uomo sposato, White rimane anche qui ad ogni modo un narratore di razza, e la sua prosa non manca mai di mantenere quella scorrevolezza e quella piacevolezza che la rendono sempre accattivante e mai noiosa. Non si tratta, insomma, di uno dei migliori romanzi di White, ma d’un buon romanzo senz’altro.