recensione diAldo Brancacci
Le lacrime amare di Petra von Kant
Riduzione di un testo teatrale, scritto e messo in scena dallo stesso Fassbinder l'anno precedente, Le lacrime amare di Petra von Kant è il dodicesimo lungometraggio del regista tedesco, è il secondo film realizzato dopo la scoperta di Douglas Sirk e il conseguente avvio del «periodo dei melodrammi», che coniuga la riflessione sulle forme dei rapporti umani e sociali con una vibrata adesione emotiva al racconto. Altro nume tutelare del film è Mankiewicz, citato all'inizio della pellicola come il destinatario di una lettera spedita da Petra (una lettera che parla di debiti). Claustrofobico, retto da interpretazioni impeccabili, da una regia fortemente teatrale e da una fotografia esemplare, è il più doloroso e forse il più perfetto film di Fassbinder. Esso si situa in un periodo di creatività straordinaria e di attività intensa e indefessa del regista tedesco, il quale nell'agosto del 1971 aveva anche fondato una propria società di produzione, la Tango Film, inaugurandola con la realizzazione de Il mercante delle quattro stagioni (Der Haendler der vier Jahreszeiten). Il film è anche considerato fortemente autobiografico, e i critici tendono a leggervi in controluce la stessa successiva tragica fine di Fassbinder. Ma, nel 1972, gli elementi autobiografici rinviano piuttosto al fatto che in quello stesso agosto del 1971 Fassbinder aveva sposato l'attrice dell'Antitheater Ingrid Caven, dalla quale divorzierà nel 1973.
Le lacrime amare di Petra von Kant è un film interamente di donne, che costituisce, in questo senso, il contraltare del primo melodramma, Il mercante delle quattro stagioni, protagonista del quale era un piccolo borghese proiettato in un ambiente proletario, laddove Petra von Kant è una donna ricca e aristocratica che, anche se vive come sequestrata nella propria stanza, ha rapporti con Madrid, Miami, Parigi. Visto in prospettiva, Le lacrime amare di Petra von Kant è, inoltre, un film dell'amore lesbico rispetto al film (quasi) tutto di uomini e di amori maschili che sarà, dieci anni dopo, Querelle. La colonna sonora del film ne svela una cifra ancora più complessa, che, proprio in quanto è affidata alla musica, mette in luce un contrasto latente: da un lato c'è la grande tradizione operistica rappresentata da Verdi, dall'altro, prediletti da Petra, i dischi dei Platters e dei Walker Brothers, in un incrocio teso, irrisolto, molto vitale. Egualmente, la fattura degli abiti, che imprigionano i corpi, specie quello di Petra, in una elegante e costrittiva prigione, e lo stile della recitazione, controllatissima, rappresentano l'elemento dell'artificio, rispetto alla natura, la freddezza stilizzata, di contro al sentimento e al sentimentalismo. L'estrazione sociale dei personaggi, vicina al proletariato quello di Karin, piccolo borghese quello di Marlene, aristocratica quella di Petra, rappresenta il clima europeo e tedesco della situazione, fortemente radicata nella realtà storica. In questo quadro è anche da notare che Petra è madre di una figlia adolescente, nata da un matrimonio dal quale si è emancipata, e a sua volta figlia di una donna con la quale avrà, nel film, un incontro e un dialogo di grande importanza.
Il nome di Petra non cela alcun riferimento al filosofo Kant (anche se Petra pronuncerà un significativo "Si deve"). Al contrario, la situazione su cui il film è costruito richiama visibilmente l'hegeliana dialettica servo/padrone, applicata all'amore. Se, nel rapporto con la segretaria-schiava Marlene, Petra costituisce il padrone, l'entrata in scena di Karin, di cui Petra si innamora, è destinata a quasi annientarla. Da un lato ella sarà abbandonata da Karin, che, se apparentemente può sembrare più spontanea e quindi più umana di Petra, si rivela alla prova dei fatti fredda e calcolatrice, e per di più totalmente dipendente dalla figura del marito, alla cui chiamata accorre, alla fine, immediatamente, lasciando cadere Petra e rivelando in extremis tutto il suo malcelato desiderio e piacere di dominio e di potere. Dall'altro, dopo che Petra è dolorosamente maturata, e, credendo di cogliere in questa maturazione un insegnamento positivo, diviene più disponibile verso la muta schiava Marlene, è proprio quest'ultima a rifiutarla: nel momento in cui Petra si spoglia del suo ruolo di padrone, nega la sua stessa ragione di esistere agli occhi di Marlene, che l'abbandona. Così Petra, abbandonata da tutti, completa la sua educazione sentimentale giungendo a un pozzo della solitudine, che sembra assoluto. In questo senso, la dialettica, se tale è, di Fassbinder, ha un esito molto diverso che in Hegel: in Fassbinder non c'è una sintesi, che superando conserva, ma semmai quella situazione che è tipica delle tragedie «avec péripétie» di Racine, ove l'amore si rivela, retrospettivamente, un accecamento, il cui superamento conduce alla solitudine e alla morte. Solo accettando fino in fondo questa amara lezione si comprende l'affermazione di Fassbinder, secondo cui, se il film ha una conclusione terribile e insopportabile, allora il protagonista, che rappresenta il pubblico, comprende la necessità di un'utopia, o, almeno, ingenera nel pubblico il bisogno di cercare un'utopia.
L'interpretazione tragica e assolutamente pessimistica di questo film, secondo la quale alla fine i personaggi si troverebbero nella stessa situazione dell'inizio, e tutto apparirebbe determinato dai più crudi rapporti di uso e sopraffazione, è divenuta un luogo comune della critica. Anche l'affermazione del regista tedesco, spesso citata, «Non esiste l'amore. [...] Esiste solo la possibilità dell'amore», è riproposta da critici e recensori enfatizzandone il primo membro, mentre appare trascurato il secondo, che è altrettanto importante.
E tuttavia, se si riflette più a fondo sul personaggio di Petra, rientrando all'interno del film, forse è possibile pensare che la disfatta della protagonista celi un esito regale, un esito che in qualche modo salva. E che nella «peripezia» che Petra compie, contaminando artificio e natura, stilizzazione e sesso, Verdi e i Platters, freddezza e abbandono, senza dimenticare una grande conquistata spiegazione con la madre, ci sia un valore più profondo, un valore di vitalità in sé, che non ha bisogno della vittoria per essere, appunto, vitale. E che il pozzo della solitudine sia pur sempre un pozzo, nel quale c'è acqua. In quest'ottica, l'ultima parola del film risiederebbe non nella finale sconfitta e solitudine della protagonista, che implica una lettura troppo priva di slancio e troppo asservita alla datità della trama e dei fatti, ma nella constatazione che tutto questo è la vita, e che essa non cessa, per ciò, di essere vita, con tutta la sua irresistibile attrattiva e con tutti i suoi continui rilanci. Né è vero che Petra alla fine si ritrovi nella medesima situazione dell'inizio, solo più tragica e amara. Rispetto a Karin, che ritorna gioiosa alla dipendenza dal marito, Petra è pur sempre una donna indipendente che ha abbandonato per sempre un marito prepotente, neutralizzandone anche sessualmente il bisogno. Rispetto a Marlene, che resta servo proprio nel momento in cui crede di rovesciare i ruoli, e stolidamente e meccanicamente, come una marionetta, esce di scena, Petra riesce, proprio perché paga un enorme prezzo, a superare la fissità del suo ruolo in quella relazione, e a conquistare umanità. La stessa frase di Petra, la quale dichiara di non avere veramente amato Karin, ma solo cercato di possederla, non significa affatto una impossibilità dell'amore lesbico a formularsi liberamente, ricadendo anch'esso sotto le leggi del più brutale rapporto tra uomo e donna (cfr. Davide Ferrario, Cineforum n. 218, 10/1982; diversamente, Alberto Moravia, in una recensione di cui ho notizia solo indiretta, scrisse che solo l'amore omosessuale è in grado di rappresentare la potenza e le contraddizioni dell'amore), ma cela un insegnamento appreso, un frammento di verità: nel colloquio con la madre, è fondamentale l'affermazione di Petra "Si deve imparare ad amare senza esigere". Mentre Marlene è condannata a un'iterazione ad libitum del suo sempre identico ruolo, mentre Karin è vincente nella vita solo a prezzo del cinismo, e di una certa volgarità e dipendenza (anch'essi irresistibilmente attraenti), Petra si nasconde nel buio dell'ultima scena conservando lei sola una nota - possibile - di autentica forza. L'asserzione di Fassbinder, che assegna al pubblico il compito di rilanciare l'utopia e la speranza, avrebbe dunque una contropartita oggettiva nel film, dove, più che utopia o speranza, c'è la loro radice. E questa lettura sembra tanto più legittima in quanto Fassbinder crede che il protagonista rappresenti il pubblico.