recensione di Mauro Giori
Common ground
Il primo episodio è ambientato negli anni Cinquanta e riguarda una giovane soldatessa congedata con disonore perché trovata a ballare in un locale gay durante una retata, insieme a un collega “amico di Dorothy”; il secondo ha luogo vent’anni dopo e coinvolge un liceale maltrattato dai compagni che un docente gay fatica a difendere perché non ha ancora fatto coming out con i colleghi; il terzo si svolge nella contemporaneità e ruota intorno al matrimonio di due ragazzi che il padre di uno dei due, militare in pensione, fatica ad accettare.
A dispetto delle differenze di tono dovute ai diversi sceneggiatori, tutti e tre gli episodi soffrono (rivisti oggi) per un’ingessatura dovuta da un lato a uno stile caratteristico della televisione dell’epoca (statico, limitato e monotono nella scelta delle inquadrature e nella predominanza del dialogo), e dall’altro a un certo eccesso didascalico. Si tratta infatti di un film dichiaratamente didattico, che vuole offrire al pubblico generico della televisione (cioè soprattutto a eterosessuali) exempla per riflettere sui danni dell’omofobia e sulla infondatezza delle sue motivazioni. Il melodramma dei primi due episodi si distingue così poco dalla vena brillante che Fierstein (attore e sceneggiatore) porta al terzo, chiudendo un ciclo che vorrebbe mostrare la progressiva integrazione degli omosessuali nel tessuto sociale, da quando potevano contare solo sulla solidarietà dei loro simili a quando sono giunti paradossalmente a rischiare di smarrire la loro specificità.
Tante buone intenzioni e un po’ troppo miele nel suo anelito di fratellanza universale, ma almeno una battuta memorabile di Fierstein, che suona più o meno così: «Gli etero vedono tutto come una guerra. Il calcio, l’hockey, la guida, la politica o il sesso, per loro è tutto uguale: scelta una parte, aggrediscono l’altra».