recensione diFrancesco Gnerre
Martin Bauman
Dall'esordio, degli inizi degli anni Ottanta con la pubblicazione di un suo racconto su quella che in questo romanzo è semplicemente la "rivista" (il prestigioso "New Yorker" che per la prima volta pubblica un racconto di argomento gay), al suo Ballo di famiglia, un classico della nuova narrativa e modello di tanti giovani scrittori, ai romanzi successivi, il tema dell'omosessualità, indagata in tutti i suoi aspetti e in diversi scenari, privati e sociali, attraversa tutti i libri di David Leavitt. E si tratta di un'omosessualità "moderna", uscita dalla clandestinità e dal maledettismo, che si confronta con le sue fragilità e i suoi rituali, con la famiglia, con la prospettiva di una vita di coppia, insomma un'omosessualità che si configura sempre più come "normalità".
L'omosessualità è il tema centrale anche di quest'ultimo romanzo in cui Leavitt si misura con una narrazione autobiografica di grande respiro.
Martin Bauman, il protagonista, alter ego dello scrittore, ripercorre la propria iniziazione alla vita (i primi amori, il coming out, le rigorose regole del "sesso sicuro" dei primi anni Ottanta, l'incubo della malattia e della morte, una possibile storia d'amore tra due uomini).
E parallela all'iniziazione alla vita c'è l'iniziazione alla scrittura, dai primi anni in California all'approdo a Manhattan e alla notorietà nella società letteraria newyorkese fino ai primi viaggi in Italia e al successo.
Intorno al protagonista una folla di personaggi, dietro i quali si nascondono, con evidenza, persone reali, e con tutti Leavitt sa essere impietoso e finanche cattivo, illuminando con lucidità un mondo fatto spesso di ipocrisie e di narcisismo, di presenzialismo e di pettegolezzi, totalmente a suo agio nella civiltà dell'immagine e dell'apparenza.
Si tratta comunque di un mondo di cui egli fa parte e gli egoismi, le incertezze, le nevrosi dell'amica scrittrice o dell'amante scrittore sono anche i suoi egoismi, le sue incertezze, le sue nevrosi.
E non manca, in questa ansia di sincerità fino al cinismo o al desiderio di vendetta, qualche caduta di stile, come quando ci racconta che il suo ex fidanzato ha pure il cazzo piccolo ("taglia cigarillo").
L'esperimento del romanzo di grande respiro pare comunque riuscito. La lettura è quasi sempre coinvolgente e Leavitt delinea bene le ossessioni della realtà newyorkese, in particolare dell'universo gay, e le ragioni profonde della sua scrittura.
E non è un caso che il romanzo si apre e si chiude col confronto con un personaggio difficile, a tratti ostile, che incarna un po' la saggezza e la dignità della letteratura, Stanley Flint, il maestro di scrittura di Martin Bauman, dietro il quale sembra nascondersi Gordon Lish, di cui Leavitt ha seguito, con profitto, le mitiche lezioni di scrittura creativa.