recensione diFrancesco Gnerre
Fuochi di san Giovanni, I [2001]
In questo romanzo di Demarchi, ambientato nella realtà metropolitana di Torino, gli omosessuali sono "praticamente normali" e il narratore si può anche divertire ad aggredire con sferzante ironia modi di vita e mode di certi ambienti, che tendono ad esibire particolari aspetti dell'omosessualità.
È il caso del fetish party descritto nelle prime pagine del romanzo, quando il protagonista si trova per caso "in 'sto disco pub sponsorizzato dall'Arcigay", allarmato, in ansia e assolutamente estraneo e ostile, "in mezzo a quella gioventù borchiata, in canottiera, che premeva alla cassa e già si salutava a distanza con la stessa grazia cinguettante di certe abbonate piemontesi allo Stabile di Torino, nella hall del Teatro Alfieri".
Il libro di Demarchi racconta di due giovani, Sandro e Gabriele, che dopo essersi persi di vista per alcuni anni, decidono di condividere un piccolo appartamento dalla parte di Porta Nuova a Torino.
Qui scoprono di amarsi e vivono la loro storia d'amore che, tra tenerezze e affettuosità, litigi e incomprensioni e un senso diffuso di smarrimento e di sgomento, segue la sorte, comune a tutte le relazioni - oltre che a tutti gli Imperi (direbbe Arbasino) - : declino caduta e fine.
Torinese, autore già di due romanzi popolati da un variegato e ironizzato mondo giovanale (Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant, Transeuropa-Mondadori 1996) e Il ritorno dei granchi giganti, Theoria 1997), in questo romanzo Demarchi si confronta con il tema della coppia, con la sofferta trasformazione di un amore in amicizia e con un più incisivo scavo nell'interiorità dei personaggi.
Ma non si tratta di una storia triste. Anche quando si descrivono situazioni drammatiche, Demarchi riesce sempre a smitizzare e a cogliere il lato comico che si nasconde sempre dietro ogni tragedia, con un effetto fortemente liberatorio. E questo grazie a uno stile originale, con momenti particolarmente felici (come l'avverbio di nuovo conio ognimmodo che ricorre con insistenza in tutto il romanzo), che sembra nascere da una rielaborazione tutta personale della lezione di Pier Vittorio Tondelli:
"Tondelli è stato, ed è tuttora un maestro", mi dice Demarchi, "insieme ad Arbasino e ad alcuni americani (Carver, Salinger, Selby jr) che continuo a rileggere.
L'incontro con Tondelli, a vent'anni, quando lessi Pao Pao, fu per me una rivelazione e una folgorazione - la scoperta della scrittura come esperienza immediata, disponibile, non letteraria, la scrittura che viene prima del romanzo o del racconto, prima del genere letterario e della trama, che nasce dal parlato, dal vissuto.
Pao Pao per me era tutto questo, insieme alla possibilità di tentare l'avventura, senza alcuna esperienza, di mettersi alla macchina da scrivere e provare a buttare giù un romanzo, così, senza una trama in mente, senza un progetto, solo affidandosi allo spirito dell'imitazione, alle emozioni, al suono, al ritmo delle parole che, come per incanto, diventano le tue parole che provano a intonarsi e accordarsi alla voce dei tuoi ricordi, alla verità della tua esperienza personale, individuale o di gruppo.
Rileggere oggi Tondelli è un continuo nutrimento. Le sue pagine illuminano ogni volta qualcosa di nuovo della scrittura, il peso delle parole, ad esempio, l'importanza di essere onesti quando si scrive, di prestare attenzione non solo al ritmo della frase ma anche alle sue aperture di senso, al luogo da cui si parla".
Contrario a etichette e categorie, "invenzioni di critici e giornalisti", ma convinto che
"scrivere è svelare il proprio mondo sapendo che lo si può condividere, sapendo che scrivere e leggere fanno parte della stessa attitudine, vocazione forse, a ricordare, rivivere, illuminare di nuove considerazioni e intensità la propria vita",
Demarchi si mostra molto scettico a proposito della maggiore diffusione di libri a tematica omosessuale di cui si parla oggi:
"Non vorrei essermi perso, come si dice, qualche puntata, ma francamente non vedo, nell'attuale panorama dell'editoria italiana, tutta questa esplosione, questi sons et lumières di romanzi a tematica gay.
Qualcosa senz'altro mi sarà sfuggito e dunque, se davvero sono sempre più frequenti in Italia i romanzi legati al tema dell'omosessualità, be', non può essere che un ottimo segno, un'occasione per far festa.
Se guardiamo però al cinema, dove le storie che raccontano il mondo gay sono sempre più ricorrenti, anche nel cinema italiano, la mia impressione è che, nonostante i passi avanti fatti per superare certi clichés, qualcosa ancora non funzioni.
Il limite di tutte queste storie (e parlo qui anche di certi romanzi di scrittori inglesi) risiede ancora, secondo me, nel considerare l'esperienza dell'omosessualità appunto come un'esperienza o una condizione - nel raccontare la vita di un gay come un fatto eccezionale che orienta e condiziona l'intero soggetto fino a diventare una "tematica" o un "genere".
Bisogna inoltre considerare che il successo di un film come Le fate ignoranti, che è comunque un discreto film, con due o tre cose giuste, tipo il senso dell'amicizia, la dimensione del gruppo, è dato dalla presenza di un personaggio femminile eterosessuale come protagonista, una donna etero che rilegge il mondo gay con il quale si confronta, con gli occhi di un'estranea in visita a un posto che non conosce e che vuole scoprire, così come se si trattasse di esplorare una grotta o il fondo marino.
Lo spazio vero di uno scrittore o di un regista dovrebbe sempre riguardare, secondo me, ciò che è in continuità col proprio essere, e quindi anche nel raccontare le storie dei gay è l'onestà del narrare data da questa vicinanza quello che più conta; insomma, la vita di un omosessuale vale per quella che è, è una vita come quella di chiunque, di chi lavora, paga l'affitto, s'innamora, si lascia eccetera.
La dimensione umana, "terrestre" mi verrebbe da dire, è un po' quello che manca in tutte queste storie, anche nelle più riuscite".