recensione diMauro Giori
Prayers for Bobby
Prayers for Bobby è un piccolo manuale televisivo per insegnare ai genitori in odore di bigottismo religioso come gestire un eventuale figlio gay capendone la normalità (oggi verrebbe quasi da dire la banalità) ed evitando inutili e arcaici drammi. Quei drammi che qui si dipanano in tutta la loro tragica portata in funzione di modello negativo. L’ancoraggio alla realtà (si tratta di una storia vera, come si suol dire, che ha luogo tra gli anni Settanta e gli Ottanta) conferisce all’agile exemplum ulteriore forza persuasiva, così come l’apporto di un’attrice quale Sigourney Weaver, che ha legato il proprio nome principalmente a figure femminili mascoline, dalla baritonale Dana di Ghostbusters (1984) alla fallica Ripley della quadrilogia di Alien (1979-1997). Ma il perfetto cinefilo gay la ricorderà anche in Jeffrey (1995) e in Infamous (2006).
Come sembra inevitabile in questo genere di prodotti, il pregio del film è anche il suo limite. Prayers for Bobby fa tutto quello che deve fare e dice tutto quello che deve dire (non manca persino una rapida esegesi dei passi biblici sull’omosessualità). Soprattutto, fa e dice tutto quello che ci aspettiamo che faccia e dica, senza sorprese né reali impennate emotive. Piuttosto che rinunciare a qualcosa, preferisce costringersi a correre e a tirar dritto laddove avrebbe potuto e dovuto soffermarsi. È il caso della scoperta dell’Aids da parte di una madre già esasperata, ma anche quello della morte di Bobby, l’evento centrale della storia eppure singolarmente opaco nelle sue motivazioni, al di là dell’ovvio fardello ereditato dalla madre bigotta (ma il resto della famiglia non era altrettanto opprimente, senza contare il nuovo contesto liberale in cui il ragazzo si trovava ormai a vivere).
In ogni caso, un film del genere ha ancora qualcosa da dire a chi vive sperduto nella provincia americana, o in quella provincia del pianeta Terra che ha nome Italia, felicemente ferma all’anno del Signore 1491 e ostinata a non fare l’ultimo passino che le serve per uscire dal suo prolungato Medioevo cattolico e ultraborghese.
Ecco dunque l’utilità di questo decalogo degli errori più madornali che si possano fare di fronte a un figlio gay. Errori che poi sono riassumibili in uno solo: l’incapacità di mettere in discussione se stessi e le convinzioni ereditate dalla tradizione. Cioè, spesso, dall’ignoranza e dall’ipocrisia altrui (nella fattispecie da quelle della gerarchia ecclesiastica).
Mary Griffith è una madre a tal punto timorata (cioè terrorizzata dalla morte e alla ricerca di conforto) che non può che fare danni. Come tanti cristiani di buona volontà, è convinta di conoscere la verità di un testo che non ha mai letto davvero e che ha ridotto a una comoda raccolta di aforismi decontestualizzati, così come le è stato insegnato; chiama fede la persuasione che la Bibbia sia passibile di una sola interpretazione (il resto del mondo invece la chiama ignoranza); e sente il dovere di imporre agli altri le proprie idee su come la vita debba essere vissuta.
Sono tutti aspetti che il film illumina almeno a tratti, con più o meno efficacia a seconda dei momenti. Dopo il suicidio del figlio, Mary trova finalmente la forza di mettere tutto in discussione, anche se stessa, scoprendo nuove interpretazioni della Bibbia, nuove concezioni della religione e della vita, collaborando con organizzazioni militanti di genitori di omosessuali (il film si chiude con la partecipazione dell’intera famiglia rimasta a un Pride di San Francisco). Quello che il film invita a fare senza aspettare di avere un figlio morto sulla coscienza.
Perfetto per cineforum con discussione al seguito.