recensione diFrancesco Gnerre
La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria
In una notte d'agosto del 1930 a Torino in una signorile casa di via Oporto, che diventerà nel 1945 corso Matteotti, viene uccisa una donna, Vittoria Nicoletti, di anni 32.
Una giovane donna strangolata nel proprio letto. Nessuna traccia dell'assassino, titola "La Stampa".
In realtà l'assassina, che è una donna, Rosa Vercesi, amica della vittima, di tracce ne ha lasciate molte, tanto che viene arrestata nel pomeriggio dello stesso giorno e in poco tempo processata e condannata all'ergastolo.
Rosa non confessa, ma le prove contro di lei sono schiaccianti e nonostante la "moralizzazione fascista" con il tentativo di far scomparire dai giornali ogni sorta di "delitti e storie sporche"", e nonostante le telefonate dello stesso federale al questore ("smorzate quanto più potete! Si sta parlando troppo di questo sporco affare"), la notizia desta scalpore, i giornali ne danno conto e la vicenda finisce perfino nei manuali di medicina legale, oltre che in canti popolari.
Sconvolge il fatto che una donna possa aver ucciso in maniera così spietata per abietti motivi di interessi.
Ma se fosse stata solo una storia di furto e di morte, il caso Vercesi non avrebbe colpito tanto l'immaginario popolare.
Affascinato dalla vicenda ("Dostoevskij osservava che approfondendo semplici fatti di cronaca si può oltrepassare, in tragico, lo stesso Shakespeare"), Ceronetti la riscrive frugando nelle zone più inafferrabili della psiche fino a restituire un'identità negata alle due donne, sia alla "vittima" che come una falena "gira stregata attorno al filo incandescente per voglia di morire"", sia all'"assassina"" che, per giustificare i numerosi graffi sul suo corpo, parla, col tono melodrammatico di un'attrice, di "spasimo della congiunzione"" con un amante.
Ma in questa storia di amore e di morte non ci sono uomini.
Le due donne avevano una relazione lesbica che durava da anni, quella notte avevano fatto uso di cocaina che la Nicoletti portava in Italia dai suoi viaggi a Parigi e il delitto era maturato nel "terrain vague di un crimine erotico, chiodato di passione sadomasochistica, sfiorante l'abisso del consenso della vittima".
Se Rosa avesse confessato la verità, non sarebbe stata condannata all'ergastolo, ma vittima anche lei dell'ipocrisia imperante, con la stupida complicità dei giudici, insiste in un comportamento autolesionista, pur di non ammettere la natura del legame con Vittoria, d'accordo anche lei con la verità ufficiale, più rassicurante e in sintonia col perbenismo clerico-fascista.
Ceronetti, che di solito distilla preziosi aforismi sapienziali e velenosi, ha scritto un libro-verità insolito e molto bello con l'intento di fare "di quei due nomi nella memoria", "figure umane", di "sgattigliare la polvere in cerca della verità", perché, come dice in un altro momento del libro, "la verità non fa male alle ombre".