recensione diFrancesca Palazzi Arduini
Il bosco di giorno. Prosa e poesia in “L’uovo fuori dal cavagno” di Margherita Giacobino
Il miglior libro del 2010 è "L'uovo fuori dal cavagno" di Margherita Giacobino. Voi direte: ma chi è questa che, senza nemmeno citare premi letterari dai nomi liquorosi o mercantili sentenzia con tanta imponenza? Eppure è così, ve lo dico io, e vi spiego il perché.
Un libro, per essere nominato migliore deve avere molte voci, una solitaria ma così forte da spiazzarvi leggermente mentre leggete, quasi vi sussurrasse qualcosa che sapevate da sempre ma a cui non avevate mai pensato così, e le altre? Altre che vi mostrino qualcosa che non avreste visto mai in quella luce, aprendovi uno spiazzo di gratitudine, in un onirico e un poco impolverato teatrino dei pupi, animato da figure della vostra vita, e che coi suoi lanternini quasi vi illumina come un chiaro del bosco.
Un libro quindi per essere amato deve avere un'anima, cioè invecchiare nel tempo, e poter fruire di una lettura esoterica facendosi adepte che ne seguano allusioni e confessioni celate, ma poter anche essere aperto a caso e letto per caso, parlando in ogni caso a chi distrattamente lo apre. Altroché Iphone. Si tratta di superiore magia, o di stregoneria volendo. E per ottenere ciò occorre vendere l'anima.
Sicuramente Giacobino ha venduto la sua poesia alla sua prosa e tutte, soprattutto noi lesbiche italiane, dobbiamo essergliene grate. Perché ha consentito alla storia delle lesbiche italiane di incarnarsi in una innata Epica di educazioni sentimentali (non per niente è sua "L'educazione sentimentale di C. B. del 2007, ed ancor prima "Marina,Marina, Marina" del 2000), perché ha potuto materializzare un lungo racconto dal quale parlano finalmente i sentimenti delle lesbiche italiane nate e cresciute dagli anni '60 sino ad oggi e di molte delle loro amiche, colleghe, compagne e ave. E questo risultato non ha pari nella letteratura contemporanea di altri Paesi, anche di quelli più evoluti dal punto di vista letterario e della cultura Lgbt.
Per tutte le sue lettrici questo libro è la scoperta di un'ardita scommessa, fatta probabilmente sia dalla scrittrice con se stessa che con noi. La storia infatti è narrata da due ragazze che a loro insaputa si dividono i brevi capitoli, col loro linguaggio, un racconto senza compiacimenti e senza pesanti neologismi, in cui non si nota affatto lo sforzo di creare un testo multiforme. Scritto con un una tessitura fresca e spesso esilarante "L'uovo" è un lavoro che cela dietro di sé l'esperienza di una donna in realtà molto più matura e politicamente consapevole delle sue attrici ma che ha il coraggio di perdersi in loro e di lasciare sempre visibili i suoi compromessi, come strattoni di burattinaia. Un testo leggero che cela insospettabili profondità. Un testo scanzonato e ironico, a tratti inquietante.
Velocemente infatti, come in un fumetto, si tratteggiano le madri, la loro casalinghitudine spesso grottesca e la loro forza di matriarche obbligate spesso così dignitosa da suscitare tenerezza. Ed i padri, goffi e un po' paraculi nella loro maschia pantofola come fossero fuchi. In questo universo matriarcale, nel quale anche le donne peggiori sono interessanti, e spesso catartiche, la figura della zia Manu, tra le altre, colpisce al cuore per la sua evanescente anoressica realtà di eroinomane svagata e vittima di scelte sempre sbagliate: " Zia Manu era alticcia e cicalava felice, con una fetta di pane e crema-gianduia che continuava a portarsi alla bocca e a rimettere giù ... Accanto alla crema-gianduia c'era un assortimento di pastiglie. Elisabetta si protendeva verso di lei come per abbracciarla e di tanto in tanto mormorava dolcemente: Ma guardati, pensa a come avresti potuto essere, potessi ammazzarti io, così almeno mi levo il pensiero."
La scomparsa di zia Manu, descritta in poche pagine e con in più l'apparizione di due agenti di polizia dall'accento del sud assolutamente e inaspettatamente comico, è una visione.
Il lavoro di elaborazione ed alchimia, la distillazione che ci regala una storia anche nostra, mostra la trasparenza del linguaggio di Giacobino, differente dalla prosa-comizio o prosa-giudizio (o, direbbe lei, dallo strofinare le proprie sanguinolente trippe sulla carta). Il racconto delle prime esperienze amorose delle due adolescenti, svolto con scioltezza nella loro vita di tutti i giorni, ci regala anche piccoli cammei politici, oltre che figure come quella di Meri, la lesbica impegnata nel movimento, il cui Carattere che fa parte della commedia dell'arte femminista e lesbica messa in atto da Giacobino. " (Ste, a me) Io non sono così. Io ho avuto una storia con Valeria, ma questo non vuol dire niente. Non vuol dire.
(Meri, a Ste)Non vuol dire che sei lesbica?
(Ste, a me)Io non voglio etichette, capisci? Mi sento soffocare, non fa per me! Non mi interessa!
(Meri, a Ste) E chi ha messo le etichette qui? Chi ha detto niente? Siamo qui per parlare, mica per distribuire etichette. Anzi, se non ti piace la parola lesbica possiamo usarne un'altra. Cosa ne dici di corsara? È carina, no? Puoi usarla per rodarti, prima di passare all'altra. Comunque guarda che gli etero non ti faranno questo piacere, perciò tanto vale che ti abitui."
Tra tutti questi personaggi, aprono e chiudono la storia del libro due anziane, Cecca e Vic, come capisaldi dell'educazione morale della giovane Dolores (ex Gioia), l'uovo fuori dal cavagno, metafora di una alterità propria di una bambina già pronta al riconoscimento di un materno e quindi di un femminile differente da quello usuale. Anche se saranno le esilaranti descrizioni dei suoi esperimenti sessuali di bambina a catalizzare l'attenzione dei lettori più sbrigativi, vorrei segnalare la parte finale del libro come quella che riserva le più sottili sorprese. La dedizione che Dolores proverà per Vic, la "vecchia scrittrice paralitica e tirchia" che la assume, la studia e la sfida, è l'atto finale della sua indipendenza di giovane donna e pure delle sue insicurezze ..."Lei sapeva. Lei era un'aliena, una disadattata come me, e non solo era riuscita a salvare le penne, ma perfino ad avere successo. Era un genio. Qualcosa avrei pure imparato da lei, no? Il suo segreto doveva essere vaporizzato nell'aria che la circondava, e io l'avrei respirato e col tempo me ne sarei impregnata, come le sue sciarpe erano impregnate di Chanel e sigarette."
Nei tratti di Vic Sereni, nella descrizione della sua burberaggine e nella scoperta delle sue foto giovanili possiamo riconoscere forse i simbolici ritratti della giovane Patricia Highsmith, e sicuramente il legame affettivo che si crea tra chi legge e chi è letta. E' proprio nel "non luogo" dell'indipendenza concessale da Vic, che Dolores incontrerà Debora, sulle scale di servizio del vecchio palazzo nobiliare che vedranno altri pezzi di teatro:
"Sarà un mesetto dopo, la rivedo e le dico: Ma tu abiti qui?
Fa di sì con la testa. È recidiva.
Non ti vedo sovente, butto lì. È già un mese che...
Di solito passo di là, fa lei indicando l'altra scala, quella nobiliare. ...
Passo di là da quando ti ho incontrata.
Io ci resto.
Be' grazie, faccio dopo un po', non capisco bene ma intuisco che deve essere un segno di distinzione.
Esattamente, dice lei. E gira sui tacchi e se ne va."
Il teatro liquido e ombroso di Margherita Giacobino ha popolato come in un bosco di giorno il nostro immaginario predandoci e restituendoci figure: le madri che come l'Elisabetta di questo libro cucinano e reggono le sorti familiari, oppure lo zio Infelice e la zia Mestizia, la ginecologa Corallina, Giovanna la femminista che spiega come si fa ad accorgersi che si è attratte a vicenda, la zia Delfina, la nonna Emilia, la Cecca che ha in casa vicino alla sua madonnina anche le lastre dei suoi polmoni, la frikkettona Michelle col suo accento francese, le femministe del gruppo Pentesilea o le Vecchie Vacche, la sfuggente intellettuale Linda Brown, la Lili che fuma il sigaro e getta sardine ai gatti randagi, la parrucchiera Sonia che "inghiotte la tua lingua la tua mano il tuo braccio si spalanca è un tunnel il calice di un fiore carnivoro lo stomaco di una balena azzurra", Elisa, l'amica di sempre che ti invita e poi non torna perché sei il suo alibi per un amante, l'universo ambiguo e raffazzonato dei primi locali "anche" gay, dai quali ci si muove in città popolate di studenti e cortei. Ciò sia nei suoi libri precedenti che in questo, nel quale aggiorna la sua narrazione con una madre che si proverà nella difficile arte del dialogo:
"Perché ti sei sposata?
Te l'ho già detto, tuo padre mi ha rotto talmente l'anima.
Ma non eri incinta (...)
Che ti frega. Non sono fatti tuoi.
Ma se tornassi indietro, ti sposeresti ancora?
Sì, con Tom Cruise.
E se fossi un uomo chi sposeresti?
La figlia di Agnelli.
Io comunque non mi sposo.
Fai bene. E adesso sta' zitta."