Gay Macho

5 maggio 2005

La prima metà del libro è costituta da uno studio sociologico nel quale l'autore traccia la parabola di quello che definisce il "clone gay", cioè in parole povere un tipo di omosessuale che imita il maschio eterosessuale per rivendicare la propria virilità in contrasto con tutta la tradizione omofoba che identificava l'omosessualità con l'effeminatezza.

Secondo Levine questo modello di maschio omosessuale sarebbe un parto del movimento di liberazione gay e riguardarebbe tipicamente gli omosessuali di razza bianca insediati in grandi città nelle quali sia presente un ghetto gay. Il "clone gay" nascerebbe proprio da uno di essi, quello di New York, all'inizio degli anni '70 per iniziativa di "omosessuali trandy" (p. 58). Infatti il "clone" (sia esso "butch" o "hot", e cioè si atteggi a maschione per dare prova di virilità oppure per esercizio di seduzione) sarebbe nient'altro che un'imitazione del macho eterosessuale, però meno trasandato ed esteticamente più curato. Insomma si veste sì da lavoratore, ragazzaccio di quartiere o da cowboy, ma con abiti su misura e con barba e capelli perfettamente curati.


Levine descrive con cura abbigliamento, atteggiamenti, pose, comportamenti affettivi e sessuali del "clone gay". Questi ultimi sarebbero improntati a una sessualità estremamente libera segnata dalla ricerca perenne di incontri occasionali. Per questo motivo, essenzialmente, il "clone gay" declina e sostanzialmente scompare con l'avvento dell'AIDS, su cui si sofferma la seconda parte del libro. La quale tuttavia non è la continuazione del precedente studio (una tesi scritta nei primi anni '80 ma pubblicata solo dopo la morte dell'autore, avvenuta nel '93 per AIDS), bensì una raccolta di saggi e articoli scritti da Levine tra il 1983 e il 1992 e non sempre collegati esplicitamente al soggetto del "clone", il cui declino quindi è lasciato intravedere ma non viene descritto e analizzato con la cura meticolosa con cui sono ricostruite la sua ascesa e la sua apoteosi.


Rimane da capire se è vero che il "clone" sia davvero estinto o se piuttosto non si sia trasformato in qualche cosa d'altro, se sia insomma rinato sotto nuove forme in anni più recenti.

Ma soprattutto rimane da capire il valore di quella realtà che Levine descrive con evidente affetto e nostalgia senza mai metterla in discussione né sottoporla a intepretazione critica. Viene però da chiedersi se il "clone gay", pur rappresentando una svolta importante nella sottoculta omosessuale, non sia stato in fondo anche un modo di conservare distinzioni e stereotipi. Si può infatti discutere se adottare (sia pure consapevolmente) gli stereotipi della virilità della società eterosessuale occidentale, con l'aggiunta degli ulteriori condizionamenti della moda, sia stata e sia la strada migliore da percorrere. Levine riporta ad esempio la dichiarazione di un "clone butch" che racconta di passare ore e ore tutti i giorni in palestra perché così si sente maschio:


La società considera l'uomo muscoloso come più mascolino, così faccio esercizio spendendo molte ore in palestra a sollevare pesi. Il risultato mi fa sentire maschio. (p. 60)


Ho qualche dubbio che passare le giornate a fare qualcosa per adeguarsi alle richieste della società sia meglio che rifiutarle in blocco e gestire il proprio tempo (cioè la propria esistenza) secondo ciò che sentiamo giusto per noi stessi.

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