recensione diMauro Fratta
Polvo serán, mas polvo enamorado
Il protagonista è adorabile come spesso i narcisisti dandy e insolenti: mi ha ricordato un po’ Xavier Dolan in J’ai tué ma mère, ma molto meno isterico. Qualche sua impertinenza è d’assoluto fascino: quando, nel sedurre un legnoso ragazzo olandese, gli rievoca Bruges, diroccia in due righe da Georges Rodenbach al porno più ruspante, prima di confessare perfino un incesto con la madre (inventato, ché costei è un’inacidita pinzochera americana omofoba: niente, dunque, situazioni tipo Savage Grace di Tom Kalin, magari con un lui un po’ più desiderabile); per giunta, rifuggendo da qualsiasi facile political correctness, lo scrittore mantiene intatta l’indole del suo eroe anche dopo che un incidente gli ha fatto perdere una gamba.
Certo, Patroni Griffi poterbbe dire, come D'Annunzio, "Ardisco, non ordisco": come creatore di scene e tableaux vivants eccelle più che in sede di montaggio; ma glielo si perdona di leggieri, tant’è felice la pittura di caratteri e situazioni. E poi il sue erotismo non ha nulla di senile: che avesse già scritto queste pagine negli anni Cinquanta, quando si svolgono? Raoul incontra Cocteau d’autunno, mentre affresca la cappella dei pescatori a Villefranche: dunque nell’autunno del 1956; in precedenza aveva assistito alla prima parigina dell’opera di Britten The Turn of The Screw, la cui prima assoluta fu il 14 settembre 1954 alla Fenice (sì, altro che l’Italietta di adesso…). È invece un erotismo panico, un po’ decadente, molto ebbro di sapori e fragranze speziate, come quegl’impossibili profumi che il protagonista fantastica di comporre, nei quali vorrebbe che trovino posto anche il pepe nero e l’aglio, l’allium onde prende nome il romanzo. Come tutti i dandy, Raoul è in fondo un malinconico degustatore: di ottimi cibi, di bei ragazzi, di belle musiche; di tutte forme di bellezza che sono già ricordo sfuggente appena si assaporano.