recensione di Mauro Giori
Italia così provinciale, così bigotta
Documentario confezionato secondo la ricetta dei “mondo movies” e dei “mondi di notte” (pruriti e moralismo in parti uguali, scene dal vero alternate a ricostruzioni in studio spacciate per riprese autentiche), America così nuda così violenta ha la pretesa di denunciare tutte le magagne della società americana come se si trattasse di terra esotica, come se anziché Giorgio Albertazzi a relazionare fosse David Livingstone di ritorno dall’Africa nera, o magari Colombo stesso rientrato a Palos.
Il tono è sempre quello supercilioso del missionario e del colonialista (tanto spesso coincisi anche nella storia), persino quando oggetto dell’opera non è l’Africa con cui si baloccavano i fascisti ma l’America cui la Dc era connessa da un cordone ombelicale. Ecco dunque la denuncia del razzismo fatta con toni razzisti, quella della pornografia accompagnata da quintali di voyeurismo, quella delle sette sataniche spacciando per autentico rituale diabolico la spennatura di un povero pollo ruspante sopra una procace fanciulla, la quale espone senza imbarazzi tutto quello che la mamma le ha dato, a occhio, una ventina di anni prima. Un documentario dalla doppia morale, e per questo specchio tristo e fedele come pochi di quello che erano certi nostri padri.
Se persino gli ospedali per invalidi, che sono l’unica nota positiva su cui si chiude il documentario, sono descritti come opere pie dedicate a «vite inutili» (parlavamo di fascismo non a caso), si può capire perché Woodstock si riduca a un ritrovo di «mezzo milione circa di drogati» che ascoltano «i Rolling Stones e altre orchestre [sic]» e offra al più il pretesto per mostrare qualche seno e qualche natica al vento, e persino un ragazzotto che si porta a spasso per mano un altro ragazzotto (nudo).
In questo contesto, una delle tante inquietanti realtà d’America mostrate con scandalizzato compiacimento sono i cinema porno per omosessuali di New York, dove si offrono spettacoli «per uomini che non si possono certo dire… veri». La macchina da presa finge persino di osare entrare in una di queste sale, non avendo però il coraggio di mostrare sullo schermo più che un maschione che si lava (nulla più di una comune réclame di bagnoschiuma), e nei controcampi quattro “americani” nativi di Trastevere che l’America l’hanno vista solo in cartolina, filmati a Cinecittà e istruiti a simulare laidume. Mentre Albertazzi commenta il «vizio» dei registi che ammanniscono questi film, il documentario si affretta a passare alle «esigenze degli uomini-uomini», cioè a mostrare ballerine in tenuta adamitica. Singolare in proposito l’assenza di lesbiche, che in genere in queste pellicole costituiscono una delle portate principali, ma quello che c’è basta a capire quanto bisogno ci fosse del FUORI, che sarebbe nato pochi mesi dopo.