recensione diMauro Giori
Ciò che resta dell'Inghilterra: Jarman racconta se stesso
Il titolo originale del libro, Kicking the Pricks, riprende un’espressione biblica (“to kick against the pricks”) divenuta idiomatica che significa grosso modo “lottare contro un potere molto più grande”, ma conserva anche un doppio senso osceno (“pricks” è espressione volgare traducibile con “cazzi”): l’uno e l’altro si accordano bene al senso dell’esperienza umana e artistica di Derek Jarman, riassunta per sommi capi in questo singolare volume ibrido, nel quale considerazioni, appunti diaristici, rievocazioni autobiografiche convivono a fianco di frammenti di interviste rilette e ritoccate a posteriori dall’autore fino al punto da farlo apparire responsabile tanto delle domande quanto delle risposte.
Il libro si presenta dunque ibrido come molti film di Jarman, e come The Last of England (1988), a cui l’editore italiano ha scelto di legare a filo doppio il volume, allegandogli anche il film stesso in DVD, mai distribuito prima in Italia. Una scelta, quest’ultima, encomiabile, giacché si tratta di uno dei film più interessanti di un regista che continua a essere ingiustamente trascurato da noi. Il volume, poi, nasce proprio sul set di The Last of England. Tuttavia, il titolo italiano rappresenta per certi versi una forzatura, non solo perché rinuncia alle più profonde suggestioni di quello originale, ma soprattutto perché il volume, lungi dal limitarsi ad affrontare The Last of England, discute con pari approfondimento altre due fatiche del regista, Imagining October (1984) e The Angelic Conversation (1985), senza trascurare Caravaggio (1986) e Aria (1987). Ciò che resta dell’Inghilterra, insomma, non è un libro su The Last of England: il lettore italiano è bene che sia avvertito.
Più in generale, il libro ricostruisce tutto un periodo cruciale del cinema inglese attraverso la rievocazione dei difficili rapporti con la televisione e delle lotte intraprese dal regista per trovare finanziamenti e distribuzione, ciò che offre a Jarman l’occasione per molteplici dichiarazioni di poetica di particolare interesse e lucidità per chi voglia interpretare il suo cinema.
Soprattutto, le pagine del libro seguono i momenti fondamentali del percorso umano del regista, che quando inizia a raccogliere i materiali che comporranno il volume ha da poco scoperto di essere malato di AIDS. Jarman alterna così le riflessioni sulla sua opera alla rievocazione di episodi e frammenti della propria “anamnesi familiare” («Dopotutto l’infanzia dura solo fino all’adolescenza; poi si ha tutta la vita per divertirsi a dipanare il danno»), incentrata sulla figura evanescente della madre, segnata da una lunga malattia, e sul rapporto fortemente conflittuale con il padre autoritario («era il classico padre di una checca»). L’indagine sulla famiglia si lega inevitabilmente a filo doppio con quella sulla propria omosessualità, vissuta in modo problematico in conseguenza della repressione di un primo amore innocente scatenata dal preside della scuola che Jarman frequentava da ragazzino. Dell’inibizione susseguente («dai tredici ai diciotto anni non manifestai in alcun modo la mia sessualità») Jarman riuscirà a liberarsi solo dopo le prime esperienze sessuali (cioè dopo i ventidue anni), per recuperare il tempo perso abbandonandosi a una non meno problematica libertà sessuale cui talora si concede con scarsa consapevolezza, come nel caso delle orge in cui lo coinvolgono i preti newyorkesi presso i quali trova ospitalità durante un viaggio oltreoceano. Sale cinematografiche di periferia e saune offrono poi facili occasioni per rimediare incontri, ma non per maturare la necessaria riflessione sulla propria esperienza: «Il sesso diventò un problema solo quando lo scoprii, forse perché ne praticavo troppo». Solo il cinema e l’arte sembrano aver offerto a Jarman l'occasione di elaborare il proprio rapporto con la sessualità, e non certo nella forma tradizionale e repressiva della sublimazione imposta da un secolo di pessima psicoanalisi.
Si tratta nell’insieme di un libro intrigante, reso stimolante e di piacevole lettura dal suo carattere composito. Ma anche quando la superficie è lepida, le intuizioni di Jarman vanno spesso in profondità e la sua analisi disincantata di una società allo sbando, di fronte alle nuove generazioni allevate dalla televisione, è ovviamente di un’attualità dolente.