Shakespeare in love? I sonetti e uno scandalo che dura da 400 anni

17 agosto 2013

A tutt’oggi della vita di Shakespeare si sa ben poco, e poche sono anche le certezze che abbiamo sulla sua raccolta di sonetti, apparsa nel 1609 in un’edizione probabilmente non supervisionata dall’autore e giunta in ritardo rispetto alla moda dei sonetti petrarcheschi (diffusasi nel decennio precedente ma presto scemata), tanto che sembra abbia avuto ben poco seguito di lettori. Ne derivano una quantità di problemi relativi alla data di composizione delle poesie, alla loro destinazione (dovevano circolare tra pochi intimi o erano pensate per la pubblicazione?), all’ordine in cui ci sono state tramandate e non ultimo all’identità eventuale dei due interlocutori (un giovane e una “dark lady”) e del dedicatario (non necessariamente il medesimo giovane, considerato anche che la dedica in questione è firmata dall’editore). Di qui la questione ancora oggi più fieramente dibattuta: i sonetti rispecchiano esperienze autobiografiche di Shakespeare (e quindi la sua bisessualità), oppure sono frutto di mero esercizio retorico?

Di certo i sonetti hanno causato molte perplessità nel tempo, per motivi diversi. Coleridge trovava scandalosi i sonetti rivolti a un uomo, Wordsworth quelli alla “dark lady”, misogine testimonianze di adulterio e forse di relazione interrazziale. E tutti sanno che già John Benson, il curatore della prima riedizione, apparsa nel 1640 (cioè appena 24 anni dopo la morte di Shakespeare), pensò bene di sostituire alcuni pronomi maschili con gli equivalenti femminili, modificò l’ordine rispetto all’edizione del 1609, inventò titoli arbitrari per orientare la lettura, soppresse alcuni testi e operò altre interpolazioni (nel sonetto 108 «sweet boy» diventa per esempio «sweet love»). Il danno si protrasse per oltre un secolo, fino all’edizione approntata da Malone nel 1780. Ma in seguito non è che le cose siano andate molto meglio e non pochi sono stati e sono ancora quegli “sciocchi che si sono offesi” tacitati da Verlaine in una quartina di Hombres:

Shakespeare, abandonnant du coup Ophélia,

Cordélia, Desdémona, tout son beau sexe

chantait en vers magnificents – qu’un sot s’en vexe –

la forme masculine et son alleluia.

Gli atteggiamenti salienti, da parte della critica, sono stati due: negare tutto o ammettere il male minore, e cioè che sì, di passione omosessuale trattano i Sonetti, ma solo per esercizio poetico, secondo la moda della lirica d’amore all’italiana introdotta da Wytt qualche decennio prima e senza uscire dalle prescrizioni del neoclassicismo e del neoplatonismo (diffusisi in parallelo con la Riforma). Quest’ultimo, si sa, prevedeva tutta una retorica dell’amicizia virile che oggi sarebbe facile scambiare per erotismo. Al limite, dunque, l’eterosessuale Shakespeare si limiterebbe a fingere una passione omosessuale.

Il secondo atteggiamento è più subdolo, perché si ammanta di una sottigliezza solo apparente. È il caso di Gabriele Baldini, che cito non perché sia più deprecabile di tanti altri, ma semplicemente perché anch’io, come molti in Italia a partire dagli anni Sessanta, ho accostato Shakespeare passando per il suo Manualetto shakespeariano, che a tutt’oggi Einaudi ha in catalogo: se ne comprende dunque l’ampia circolazione e la perdurante influenza. Acconsentito che i sonetti cantano una «fiera passione omosessuale», la posizione di Baldini è la seguente:

La passione omosessuale dei sonetti, evidentissima proprio come motivo informatore, non implica per nulla l’accusa di omosessualità per Shakespeare o per qualsiasi altra persona del suo circolo.

E poco prima aveva ribadito lo stesso concetto, pari pari, il che non è irrilevante se si considera il carattere di compendio scolastico del testo, che necessita quindi di puntare alla massima asciuttezza possibile (evitando anzitutto di ripetersi):

[…] il bisogno di scagionare Shakespeare dall’accusa d’una passione non naturale, a veder bene, non sussiste: quella poggerebbe, infatti, solo sulla presunzione che i Sonetti tramandino un contenuto autobiografico, cosa, naturalmente, che non ha alcun fondamento.

Ma di “naturale” nella critica, e pure nella storia, non c’è proprio nulla, e naturale significa solamente: “non posso dimostrarlo quindi fidatevi del mio intuito”. La convinzione per cui nulla di biografico vi sarebbe nei sonetti si basa evidentemente su un vistoso pregiudizio (quella doppia “accusa di omosessualità” la dice lunga…), ma sono in gioco anche altri problemi. Ad esempio la convinzione che il Rinascimento inglese dovesse conoscere una separazione fra eterosessualità e omosessualità equivalente alla nostra e che l’omosessualità fosse semplicemente un «amore non consentito» (sostiene ancora Baldini). Ma gli studiosi hanno mostrato a più riprese che nel Rinascimento inglese, come in molte altre epoche e aree d’Europa, l’unione sessuale fra uomini (con l’eventuale corollario sentimentale e culturale) era un’eventualità più tollerata nella prassi di quanto si sia spesso immaginato, quantomeno se coinvolgeva adulti consenzienti, né precludeva necessariamente relazioni matrimoniali più tradizionali (quale quella che legava Shakespeare a una moglie e tre figli). Inoltre, una certa disinvoltura pare fosse diffusa proprio nell’ambiente del teatro (che a torto o a ragione godeva di pessima fama morale), cioè fra quelle “persone del circolo shakespeariano” che Baldini tiene ad “assolvere” d’ufficio insieme al poeta.

Immaginare perciò la sessualità di Shakespeare secondo i canoni odierni è un po’ come immaginarlo bere il tè alle cinque solo perché il nostro stereotipo di inglese è indissociabile dal consumo di tale bevanda, che nella Gran Bretagna del primo Seicento in realtà ancora non conosceva nessuno. Viceversa, immaginare Shakespeare sposato ma coinvolto in altre relazioni, compresa quella con un giovane, è tutt’altro che anomalo. Il che non significa che non fosse comunque anomalo cantare simili passioni in un canzoniere spingendosi fin dove si spinge Shakespeare, cioè appunto un po’ oltre le convenzioni dell’epoca. Tanto che persino i primi 17 sonetti cosiddetti “matrimoniali” (quelli in cui il poeta invita il giovane ammirato a sposarsi per tramandare la sua bellezza), che qualcuno trova contraddicano l’ipotesi omosessuale, secondo altri servirebbero solo a rimarcare l’implicito ruolo muliebre assunto dal poeta. Infatti, di fronte al rifiuto del giovane di seguire il consiglio di trovare moglie, Shakespeare si offrirebbe di fatto come sostituto di colei che dovrebbe generare una copia del giovane, poiché l’ufficio di tale copia sarà espletato dalla poesia.

In mancanza di certezze non è possibile prendere partito definitivo per una tesi o per l’altra, ma certamente è lecito rigettare le aggressive conclusioni che una certa tradizione dominante ha preteso di imporre con arbitrio e per ragioni estranee al pur millantato rigore storico-filologico. E infatti la maggior parte degli studiosi odierni (sebbene le discussioni siano tutt’altro che smorzate) ritiene semplicemente più ragionevole che il ciclo di queste poesie rispecchi anche esperienze vissute dal poeta, al di là dei ricami elaborati per ossequio a convenzioni poetiche. Così ad esempio nell’introduzione a una delle edizioni critiche di riferimento, quella della Cambridge (1996), si nota: «Today, in an age more open and understanding where sexual mores are concerned, the possibility that “our Shakespeare” may have been emotionally, perhaps actively, bisexual no longer shocks us as much as it would have done even fifty years ago».

Non vi sono certezze nemmeno sull’identità del giovane di cui Shakespeare canta la bellezza e le virtù, benché anche su questo punto si siano versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. Oggi sono accreditati soprattutto William Herbert, terzo conte di Pembroke, di sedici anni più giovane di Shakespeare, e Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton, il quale in un ritratto risalente agli anni della presunta relazione con il poeta (quando il conte, che aveva nove anni in meno di Shakespeare, era intorno alla ventina) è rappresentato a tal punto androgino che a lungo (per l’esattezza fino al 2002) si era ritenuto che il dipinto rappresentasse una donna.

Alla fine si potrebbe dire che proprio lo scandalo dei Sonetti, che si protrae da quattro secoli, è l’unico dato certo di cui possiamo discorrere, insieme alla «fiera passione omosessuale» pur sempre cantata nella raccolta, quali che ne siano le ragioni e gli eventuali ancoraggi alla realtà. Per il resto, tutto è nebbioso. Persino la diffusa convinzione che i primi 126 sonetti siano tutti indirizzati a un uomo (e allo stesso) è ad esempio stata messa in discussione poiché tra i problemi conseguenti all’edizione del 1609 vi è anche il dubbio sulla correttezza dell’ordine dei componimenti. Sono infatti una trentina scarsa i sonetti indubitabilmente indirizzati a un interlocutore maschile: gli altri sono stati letti come diretti a un uomo per associazione, sulla base del percorso offerto dalla prima edizione, ma potrebbero (almeno in parte) essere altresì indirizzati a una donna. Il che non significa che lo siano: di nuovo, la questione è aperta.

Non sono quindi molti gli snodi della raccolta certi intorno ai quali costruire interpretazioni. Non si va molto oltre l’amore cantato per un giovane dalle virtù angeliche ma evidentemente assai disponibile, se il poeta deve vedersela con due rivali: un collega (che i più hanno identificato in Marlowe o in Chapman) nei sonetti 78-86, e appunto la “dark lady” dall’identificazione a sua volta controversa. Evidente è anche l’asimmetria (la cui interpretazione è tutta da stabilire) per cui l’amore per il ragazzo è idealizzato e magnificato (ma l’insistenza del corteggiamento, è stato pure notato, già all’epoca poteva far pensare a un superamento dei limiti platonici), mentre quello per la donna è lussurioso (il che ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli alfieri dell’eterosessualità di Shakespeare) ma pure deprecato con toni che arrivano a essere piuttosto violenti. È dunque impossibile tracciare un dramma lineare come quello immaginato, non a caso in un testo di semi-finzione, da Oscar Wilde in Il ritratto di Mr W.H., esempio interessante di appropriazione dei Sonetti da parte della cultura gay (nel senso più pieno del termine) ma insostenibile da un punto di vista filologico.

Sopra il rumore prodotto dal mondo talvolta piccolo ma appassionante della critica, i Sonetti conservano ostinatamente i loro misteri, che nulla tolgono (anzi, in fondo aggiungono) alle loro bellezze concettose, al barocchismo dei giochi di parole e delle metafore con cui ricamano sui sentimenti che sostanziano il dramma amoroso (l’incanto per la bellezza, la pienezza della passione corrisposta, la nostalgia e l’attesa durante le assenze, la gelosia, l’offesa per il tradimento, il perdono, ecc.) o su temi più alti che ricorrono in interminabili variazioni di sonetto in sonetto (lo scorrere inesorabile del tempo, l’approssimarsi della vecchiaia e della morte, il potere eternante della poesia o viceversa i suoi limiti, la caducità della fama, ecc.).

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