recensione di Mauro Giori
L'altro "Ritratto" di Oscar Wilde
Rispetto a quello di Dorian Gray, Il ritratto di Mr W.H. è certamente molto meno noto e studiato, relegato com’è al rango di mera curiosità erudita, ma nell’insieme rivela risvolti estremamente seducenti. Pubblicato in forma di racconto nel 1889 in rivista, venne poi molto ampliato da Wilde fino a farne un romanzo breve, la cui pubblicazione rimase in sospeso all’epoca del processo. La versione lunga vide dunque la luce fortunosamente solo nel 1921, e nel 1960 uscì finalmente una traduzione in italiano in forma autonoma, come si conviene. Associare Il ritratto di Mr W.H. ad altri testi ne spoglia infatti l’originalità, implicando un’indicazione di lettura che categorizza inevitabilmente il testo. È quanto accade ad esempio nel volume dei Meridiani, dove è arbitrariamente inserito tra i saggi di Wilde anziché fra le sue opere letterarie. Ma il fascino dell’opera risiede proprio nella sua natura ibrida.
Saggio, Il ritratto di Mr W.H. lo è infatti solo per metà, essendo per metà invece romanzo di finzione. Dei cinque capitoli che lo compongono, i tre centrali costituiscono un lungo elaborato critico, mentre i due periferici li incorniciano con invenzioni di pura finzione. Questo intreccio di letteratura e saggistica è consustanziale all’assunto del lavoro, al suo significato e anche al suo argomento, dal momento che si tratta di ricamare intorno a una tesi indimostrabile, come lo stesso Wilde non manca di ammettere a più riprese.
La tesi in questione riguarda l’identità del W.H. del titolo, e cioè nientemeno che il celebre quanto misterioso dedicatario dei sonetti di Shakespeare così come furono pubblicati nella problematica e discussa edizione del 1609 (nella quale la dedica è opera dell’editore e non dell’autore). Dedicatario che si è soliti far coincidere con il giovane cui il poeta si rivolgerebbe nei primi 126 componimenti, per interloquire invece con una misteriosa “Dark Lady” nei successivi. La vexata quaestio dell’identità di W.H. non è che una delle molte ancora in sospeso relativamente ai Sonetti; un’altra, pure affrontata da Wilde, è quella dell’ordine dei componimenti.
La cornice di finzione serve allo scrittore anzitutto come schermo difensivo. Wilde può infatti così offrire il suo saggio per mediazione di alcuni personaggi di pura invenzione che dialogano proprio sull’attendibilità della teoria in questione. Si tratta di uno studioso quarantenne, Erskine; di un giovane che fa da narratore, senza nome ma tramite il quale Wilde svolge il suo saggio nei capitoli centrali, compulsando i sonetti e rievocando quadri storici; e di Cyril Graham, promettente studioso a sua volta, pressoché coetaneo di Erskine. È a Cyril che viene attribuita la teoria (in realtà in circolazione sin dal Settecento) secondo la quale in W.H. sarebbe da riconoscere Will Hughes, un giovane attore (della cui esistenza non vi sono testimonianze storiche) della compagnia di Shakespeare. In nome di questa teoria, Cyril non solo era giunto a costruire prove false, ma si era addirittura immolato nel fiore dei suoi anni nel vano tentativo di persuadere Erskine della sua correttezza.
In più, Wilde apre il romanzo con una teoria del falso come diritto di chi aspiri alla perfezione artistica («to censure an artist for a forgery was to confuse an ethical with an æsthetical problem»), cui poi intreccia l’esaltazione, tra Rinascimento e Settecento, ovvero tra Michelangelo e Winckelmann, della bellezza maschile come ideale estetico e dell’amore omosessuale come ideale sentimentale.
Wilde ricama dunque sulla convinzione che W.H. sia un giovane attore di quelli che nel teatro elisabettiano, in virtù della loro bellezza adolescenziale e dei modi languidi, venivano scelti per interpretare le parti femminili, dal momento che alle donne era vietato calcare le scene. In aggiunta propone uno spostamento dei componimenti incentrati sulla “Dark Lady” per ottenere un dramma in quattro atti secondo il quale ai sonetti in cui Shakespeare canta il proprio amore per W.H. farebbero seguito quelli in cui si offre alla donna, al solo scopo di allontanarla dall’amato (il che spiegherebbe perché l’amore si faccia qui tanto materiale quanto riprovevole). Riconquistata la sua Musa e uscita quindi di scena la donna, subentrerebbe però il poeta rivale, e Wilde si dice convinto che si tratti di Marlowe, il quale per W.H. avrebbe scritto la parte di Gavestone in Edward II. Infine, riconquistato di nuovo il fanciullo, Shakespeare lo avrebbe perdonato di tutte le sue malefatte e della sua ingratitudine.
Questa interpretazione dei Sonetti non ha più circolazione da tempo fra gli studiosi, ma dal momento che molti misteri di questa collezione di poesie affascinante e insondabile permangono pressoché intatti, il gioco di Wilde funziona ancora: basta accettare il contratto di lettura offerto all’inizio (tra l'altro un'abile excusatio non petita), il quale contempla anche la possibilità del falso, per lasciarsi andare a un seducente volo pindarico che aspira non tanto alla verità storica ma a un’invenzione di bellezza suprema, che in questo caso scaturisce dalla coincidenza fra indagine storica e una fantasia romantica in chiave squisitamente omoerotica.
«Whatever romance may have to say about the Willie Hughes theory, reason is dead against it», scrive Wilde ancora in chiusura. Ma il “romance” che ha nel frattempo ricamato egli stesso si offre (anche, se è vero come qualcuno sostiene che l’autore in questa teoria in effetti credeva) come fantasia letteraria, consapevole della mancanza di prove oggettive ma capace come tale di trasformare la sua debolezza in un punto di forza.
Guardando Il ritratto di Mr W.H. dalla prospettiva del lettore anziché da quello dell’autore, il gioco si presta poi a considerazioni ulteriori sulla soggettività dell’atto di lettura (anche di quello professionale), sull’interminabilità dell’esegesi e sul piacere della ricerca come furor investigativo (al punto che alcuni passi della cornice ricordano certe pagine di Poe precorritrici dei generi poliziesco e giallo).
Per rafforzare la sua costruzione immaginosa, Wilde si diverte anche a creare in Cryil nientemeno che un doppio dello stesso Willie Hughes. Si tratta infatti di un giovane «wonderfully handsome» (Erskine addirittura confessa: «I think he was the most splendid creature I ever saw, and nothing could exceed the grace of his movements, the charm of his manner»), nonché di un attore specializzato in parti femminili, dal momento che allora nel teatro universitario, come sui palcoscenici elisabettiani, alle donne era vietato recitare. È insomma come se in questo modo Wilde esaudisse il desiderio sul quale Shakespeare ricama con ossessiva abilità retorica nei primi diciassette sonetti, e cioè che il bell’amato si preoccupi di generare un erede che immortali le sue qualità replicandole per le generazioni future.
Il romanzo si chiude con una circolarità tutt’altro che pedante, anzi ironica: convinto infine della correttezza della tesi di Cyril argomentata dal narratore, Erskine si suicida a sua volta per provarne l’autenticità al narratore stesso. Questi infatti, una volta terminato il suo studio, smette improvvisamente anche di credere nella sua fondatezza. Ma anche il suicidio è un falso ed è solo un modo per rinnovare il gioco di specchi che sta alla base della creazione artistica, del piacere della lettura e di quello della critica.