recensione diMauro Giori
The Book of Daniel
Scorciata, sospesa e infine dirottata già in corso d’opera, The Book of Daniel ha avuto una vita breve e molto difficile: delle tredici puntate annunciate ne sono state realizzate solo otto e trasmesse appena quattro, mentre le altre sono passate in streaming su internet (allora una pratica ancora nuova). La Nbc non ha spiegato le ragioni di un simile trattamento, ma non è improbabile che abbiano pesato le polemiche e i boicottaggi degli sponsor e di alcuni canali delle aree più conservatrici degli Stati Uniti, offesi dalla rappresentazione della religione fatta sin dalla prima puntata.
Il protagonista, Daniel, è infatti un sacerdote episcopale che si mantiene a Vicodin mentre sua moglie beve Martini a tutte le ore e ha contenziosi irrisolti con la madre. Poi ci sono i tre figli: la sedicenne Grace, arrestata per spaccio di droga all’inizio del pilot, si diletta a disegnare manga in cui reinterpreta le vicende della famiglia; Adam, cinese adottato, di un anno più grande, ha un flirt con la figlia sedicenne di uno dei cittadini più influenti della comunità; e Peter, il figlio modello la cui omosessualità è ben accetta da tutti ma è tenuta nascosta al nonno vescovo, pur non avendo gli episcopali nulla di ridire sugli omosessuali. E in più c’è anche una zia che periodicamente si riscopre lesbica.
Scritta e prodotta da Jack Kenny (già fra gli autori di Caroline in the City) prendendo ispirazione dalla famiglia repressa del suo fidanzato, e chiaramente incoraggiata dal successo di Six Feet Under, la serie parte molto bene anche se presto la sua scorrettezza politica è lasciata più che altro fra le righe. Si tratti di un ripensamento successivo al pilot o di una scelta calcolata fin dall’inizio, sono comunque i toni lievi ad avere la meglio e la famiglia Webster si rivela presto assai meno disfunzionale di quanto non sembrasse. Daniel si impasticca, ma l’unica conseguenza è che parla con Gesù Cristo; la moglie beve cocktail in pieno giorno, ma non si ubriaca mai; Grace ha spacciato un po’ di erba, ma solo per finanziare i suoi fumetti; e via di seguito. Può così capitare che alcune situazioni risultino troppo forzate per sortire l’effetto desiderato (ad esempio quando dobbiamo credere che Daniel prenda due mafiosi per una coppia gay), ma si trova comunque sempre il modo di riscattare la trivialità con svolte impreviste (ad esempio quando uno dei due mafiosi torna da Daniel per dichiararsi effettivamente gay).
Allo stesso modo, la prevalenza di tonalità comiche non impedisce di inserire elementi drammatici nella tessitura complessiva (ad esempio il degenerare dell’Alzheimer della madre di Daniel), tanto che nella sesta e settima puntata è il tono generale a virare decisamente sul tragico quando Peter e Adam, scambiati per una coppia gay, sono vittime di un’aggressione omofoba che manda il primo in coma. È anche l’occasione per ricostruire la vicenda del gemello di Peter morto tempo prima di leucemia, cui è strettamente intrecciato il naufragio del primo fidanzamento dello stesso Peter, a causa del rifiuto della madre ancora impreparata ad affrontarne l’omosessualità. La puntata è di estrema densità ed efficacia nel trattare con intelligenza e partecipata sensibilità questioni molto complesse che ridanno spessore al personaggio omosessuale, il quale sembrava già risolto sin dall’inizio e quindi aveva occasionato solo qualche sparuta situazione comica.
L’impressione è che ancora nell’ultima puntata la serie stesse cercando di definire la sua identità, probabilmente anche nel tentativo di aggirare le polemiche per garantirsi un futuro. Ed è una ricerca che sarebbe piaciuto avere il tempo di vedere compiuta, perché la materia prima era di qualità: alto infatti era il livello della scrittura e delle interpretazioni, particolarmente da parte di Aidan Quinn e di Ellen Burstyn. E invece l’ottava puntata lascia lo spettatore orfano nel bel mezzo delle vicende.