Watercolors

15 settembre 2013

Da un lato, Watercolors offre tutto quello che ci si può aspettare da un Bildungsroman gay di ambientazione liceale: Danny, l’adolescente sfigato, sensibile, romantico, emarginato, deriso, intellettualoide ed evidentemente gay, che porta gli occhiali e ha un taglio di capelli (corvini) fatto in casa per sembrare meno bello di quanto non sia; Carter, l’adolescente sportivo, biondo, travagliato, stressato, impasticcato, che può passare per etero e ci tiene; l’insegnante d'arte (una Karen Black dimenticabile) che dispensa frasi fatte a mezza voce, perché sembri affascinante; l’insegnante di inglese nero che va in brodo di giuggiole quando Danny, a proposito di Romeo and Juliet, gli propina un commento di tale ovvietà da essere pressoché tautologico («Ci insegna che senza l’amore non vale la pena vivere»); il coach di nuoto (un cameo di Greg Louganis) esigente e burbero, ma incapace di accorgersi che Carter si è fatto una boccetta di sonniferi, due tiri di coca, un numero indefinito di canne e almeno una pippa prima della gara decisiva.

Dall’altro lato non si può negare che, se si chiude un occhio, talvolta un occhio e mezzo sulla recitazione e sull’anonimato della regia, certi ingranaggi del meccanismo narrativo ruotano meglio che in molti altri film simili. Nonostante non si sentisse la necessità di citare Shakespeare una sequenza sì e una no, la storia d’amore fra il giovane timido e lo sportivo disinibito ha momenti sinceri e coinvolge più di quanto si immaginerebbe sulla carta (data la risaputa banalità delle premesse). Ha una sua vena romantica persino il corteggiamento burbero e disinibito messo in opera da Carter, cui riesce facile provocare ma sempre con la (non troppo segreta) speranza che la provocazione venga accolta (anche se la quarta volta che tira le mutande in faccia a Danny…), e lo stesso si può dire della prima notte d’amore con la pioggia nella stanza, nonostante il kitsch dell’eccesso di cinefilia (immagino che a scuola abbiano insegnato a Oliveras il senso della nevicata nella stanza in cui morì Charles Foster Kane). Allo stesso modo, l’aggressione omofoba centra il bersaglio concentrandosi sul trauma emotivo subito da Danny e fa registrare nella relazione fra i due ragazzi un momento di autenticità sufficiente ad aggirare i limiti dell’istrionismo lacrimatorio degli interpreti, mentre il coming out con la mamma comprensiva è semplice ed efficace.

Se il film fosse finito qui, anche con un lieto fine sarebbe stato più che dignitoso. Invece l’influsso di Shakespeare invoca la tragedia, ma Oliveras arriva al massimo al melodramma larmoyant, sicché nella seconda parte il meccanismo si ingolfa e le derive luttuose diventano grottesche come in un film di Ozpetek. Se pare già eccessivo il dramma di chi a sedici anni si sente la vita stroncata da una passeggera crisi epilettica, solo perché compromette le sue abilità natatorie, convince anche meno il vittimismo di Carter nell’invocare una presunta complessità personale superiore a quella che il fin troppo paziente Danny sarebbe stato in grado di comprendere, mentre l’annuncio in classe della sua morte improvvisa, lo svenimento (sempre in classe) di Danny e tutta la cornice con il nuovo fidanzato (troppo piacente perché il perdurare del trauma risulti credibile) suonano posticci e si tollerano con sempre maggiore fatica.

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