recensione di Mauro Giori
Una tazza, un diario e due centimetri
Federico: «Non riesco a togliermi dalla testa quelle immagini»
Riccardo: «Lo so, è dura»
Federico fa riferimento alle foto con cui ha scoperto che il fratello Riccardo fa l’attore porno, ma potrei mettermi al posto di Federico e far mie le sue parole dopo la visione di Poco più di un anno fa, e mi diverte pensare di ricevere la comprensione dello stesso Filiberti, colui che ha «ideato, scritto e diretto» questo film, oltre ad averne interpretato il protagonista. Perlopiù in mutande, mi par bene aggiungere, poiché l’osservazione serve a completare il quadro di un narcisismo che Filiberti non fa nulla per nascondere e che condivide con tanti giovani registi smaniosi di fare gli auteurs a tutti i costi, con la stessa fissazione con cui Grisù voleva fare il pompiere. Narcisismo qui giustificato a monte dal fatto che il protagonista è un pornodivo (sia pure con improvvise vampate di desiderio di paternità), ma che non era meno accentuato quando Filiberti vestiva i panni (si fa per dire, giacché era nudo anche lì) nientemeno che dell’imperatore Adriano nel suo precedente cortometraggio Vespero a Tivoli.
Non potendo dilungarmi su ogni sequenza del film del novello autore Filiberti come vorrei, mi limiterò a qualche osservazione a margine di una tazzina e di un diario.
Uno degli aneddoti più vulgati sullo stile di Visconti riguarda il fatto che era solito riempire armadi e cassetti dei set di oggetti autentici che pure sullo schermo non si sarebbero mai visti. Dovevano però servire all’attore per sentire con maggiore verità il suo personaggio, l’ambiente e la situazione, affinché il risultato guadagnasse in credibilità. E se il personaggio doveva bere champagne, anzitutto il suo interprete beveva davvero, e poi beveva davvero champagne. Quando Filiberti, svegliato dal nipotino e dalla ex cognata, beve il caffé, dal modo in cui maneggia la tazza, dal modo in cui vi appoggia le labbra, dal modo in cui non si cura di quello che sta facendo convinto che l’unica cosa importante sia fissare la sua interlocutrice e prepararsi a proferire la sua battuta, dal modo in cui riappoggia la tazza e questa viene riportata sul vassoio con meccanica premeditazione solo perché così era stato deciso, si capisce che la tazza è vuota, puro involucro del nulla.
Può sembrare sadismo cavilloso infierire su un dettaglio simile davanti a un film che ha ben altre falle, ma il momento è emblematico di una lunga serie di altri consimili che nell’insieme creano un’impressione di estenuante falsità. E devo confermare quanto ho già annotato a proposito de Il compleanno (confesso di aver visto i due film in ordine inverso): Filiberti è un campione del kitsch. Voglio dire che è uno che crede proprio di star facendo qualcosa di bello e di intenso quando propina associazioni da manuale di regia dei meno fantasiosi. Ad esempio quando inizia un flashback con una luce sovraesposta che non si può fissare nemmeno con gli occhiali da sole; scende con la gru sull’auto che arriva alla villa come in una qualsiasi soap degli anni Ottanta; sceglie la camera a mano per fare dramma laddove c’è solo nevrosi provinciale (lo scontro con la zia Franca); attacca Mozart quando deve fare atmosfera (come faceva la Vecchia Romagna con la romanza per violino di Beethoven) e la canzoncina quando deve fare la sequenza a episodi; e via di questo passo.
Sin qui la tazzina, metafora di un involucro vuoto il cui nulla si vorrebbe caricare di infinito. Il che ci porta al diario.
Quando, all’inizio degli anni Novanta, giunse in Italia Twin Peaks, il diario di Laura Palmer venne venduto incellofanato e (se la memoria non m’inganna) intonso con «TV Sorrisi e Canzoni», perché sembrasse quello che non era, cioè lo scabroso journal intime di un’adolescente pressoché peripatetica d’hobby se non proprio di professione. Mi è tornato alla mente durante una delle molte occasioni in cui Filiberti interrompe il racconto per filosofeggiare a mezza voce (proferendo ogni battuta come se dovesse essere l’ultima, ma forse questo era solo un mio pio desiderio), direttamente o tramite appunto le pagine del diario di Riccardo. Talvolta possono essere battute da birignao valentincortesiano («Io non ci credo a questa storia della coppia… Non ci credo! Fra uomini poi… di un antico…»), talaltra possono essere sproloqui da dolori di un non più giovane Werther lombardo su amore, sesso, coppia, omosessualità, vita, morte e ci mancano solo i miracoli (ma con quei boccoloni biondi, ho l’impressione che Filiberti un po’ Gesù Cristo si senta, anche se lui pensava a Marilyn). Esempi: «Il corpo non trattiene i segni: è l’anima quella da salvaguardare»; «Voglio regalare luce, quella luce che fa allegria. Forse… è l’allegria dei naufraghi. È pur sempre allegria»; «Degli esseri viventi mi ha sempre commosso la fatica di vivere». E nel mezzo un bel primo piano del fratello che legge in lacrime.
Non che Filiberti non mi abbia insegnato nulla. Io ad esempio non lo sapevo che misurarselo di sopra e misurarselo di sotto fa tanta differenza e posso immaginare che se la notizia fosse maggiormente diffusa certune esistenze tribolate potrebbero ricavarne conforto. Ma per me il senso della vita non sta in due centimetri e questo ipotetico Rocco Siffredi gay – come in Italia non l’abbiamo mai avuto e men che mai avremmo potuto averlo negli anni Novanta, quando sono ambientate le vicende di Ricky – mi sembra alla fine solo una grande fantasia masturbatoria (con tanto di finale nello stadio).
Il che ci riporta al narcisismo. Nel frattempo Filiberti ci costringe infatti a fissare i suoi addominali, i suoi capezzoli, il suo ombelico, il suo sedere e il suo volto da funesto rampollo Savoia illegittimo che avrebbe voluto essere Helmut Berger, mentre nelle battute del suo Ricky mette "cazzo", "erezione" e "scopare" una parola sì e una no come se ciò dovesse rendere trasgressivo un film che potrebbe passare su Raiuno la domenica in prima serata, nonché un diario che potrebbe essere venduto con «Famiglia Cristiana». Anche senza cellofan.
Si potrebbe continuare notando che non è buona creanza somministrare allo spettatore istruzioni su come debba vedere il film e su come debba sentire il protagonista (ciò che Filiberti fa continuamente, attraverso gli interventi di altri personaggi). O osservando che, a voler essere pignoli, mutare registro mischiando gli stili è cosa diversa dal saltabeccare continuamente e per capriccio fra tragedia, commedia triviale, melodramma e commedia degli equivoci (che mostra subito la corda, anche perché la cosa che riesce meno bene a Barberini – l’interprete di Federico – è il recitare la parte dell’imbarazzato).
Ma è tempo di chiudere e allo scopo mi servo di un altro emblematico scambio di battute tra i due fratelli, che mi sembra spieghi perché dopo Poco più di anno fa abbiamo avuto anche Il compleanno:
Federico: «Smetti… smetti! Non hai più bisogno di fare questa roba… Basta!»
Riccardo: «No. Se io smetto adesso è come dire… che fa schifo tutto quello che ho fatto. Ho cercato di diventare qualcuno. Lo capisci questo?»
Lo capisco. E se ci sarà un terzo Filiberti sarò in prima fila, promesso.