Morte a Venezia del compleanno del caro amico Zoolander

16 marzo 2013

Guardare Il compleanno è come contemplare una riproduzione in plastica di una scultura di Canova, compiacersi di asciugarsi con una salvietta da cui ci sorride la Gioconda, controllare la temperatura su una tour Eiffel tascabile. È la quintessenza del kitsch, inteso nel senso più tradizionale del termine, come prodotto triviale con evidenti ambizioni di eleganza. E, nel caso del nostro film Midcult, di approfondimento psicologico, di tragedia, di riflessione sulla vita. E di realismo, perché in Italia non si può fare un film senza millantare realismo, anche se significa solo far dire agli attori “cazzo” ogni tre parole perché sembrino più spontanei. E anche se, sotto sotto, si guarda a Visconti (horribile dictu, ma vero). I risultati si vedono fin dall’inizio, ispirato a quello di Senso di cui però sembra solo una svogliata parodia.

Guardando dunque a Visconti ma senza arrivare nemmeno a Ozpetek, Filiberti cerca di costruire quello che chiamerei un kammerspiel balneare. Che è un po’ come prendere uno scenario di quelli che i pittori dell’Ottocento consideravano l’incarnazione del sublime e chiuderlo in una pallina di vetro per farci cadere sopra la neve finta. È pur vero che Welles aveva saputo sintetizzare il senso della vita (di quella di Kane, quantomeno) proprio in una di queste palline. Ma Filiberti è uno che il kitsch non lo usa, lo fa, perché ci crede davvero. Ovviamente, lo spettatore è libero di guardare con disincanto, e allora il film riuscirà esilarante. Ma se si fa lo sforzo di assecondarlo, e cioè se si assume la posizione dello spettatore ideale, si arriva alla fine con un vago senso di malessere.

Come si fa un kammerspiel? Si prendono dei personaggi complessi, li si costringe a vivere in un ambiente chiuso dove i loro drammi personali un po’ alla volta vengono in superficie e deflagrano, tanto che spesso ci scappa il morto.

Come si fa un kammerspiel balneare? Si prendono dei personaggi elementari; si finge che siano complessi (come? Basta dire che lo sono); si finge che siano costretti a vivere in un ambiente (balneare, bien sûr), a fianco di persone che non sopportano; si evita di chiedersi perché lo facciano; si forzano drammi inconsistenti; si finge che il morto alla fine non potesse essere scongiurato.

Ovviamente per fare un kammerspiel ci vogliono grandi attori e una sceneggiatura calibrata al millimetro, altrimenti si rischia di disperdere l’interesse, di fare girare il meccanismo a vuoto, di non mettere a fuoco il senso, quando non addirittura la metafora esistenziale. Sono cose che capitano anche ai migliori (Carnage ne è un esempio).

Per fare un kammerspiel balneare basta invece prendere chi capita; assegnargli un personaggio a caso e dichiarare chi è e quali problemi ha, come alla dogana; e soprattutto fargli alzare sempre più la voce in modo che sembri che il dramma per qualche ragione vada peggiorando.

Esempio, Matteo. Del gruppo dovrebbe essere l’intellettuale. Ora, come si può farlo capire allo spettatore? Lo si può fare emergere in modo naturale durante il racconto, mostrandone le capacità, l’eloquio, la maturità, o mal che vada lo snobismo, la pedanteria, l’egocentrismo, se deve essere un personaggio negativo. Ma non nel kammerspiel balneare, dove invece si stampa in fronte al personaggio la scritta: “intellettuale”. E così Matteo deve amare Wagner, e non può semplicemente dire “mi piace” ma deve citare a caso Freud e Schopenhauer; in spiaggia deve leggere Proust; deve insegnare l’esoterica arte del congiuntivo ai suoi inferiori. In più, tutti (ma proprio tutti) gli altri personaggi devono dichiarare a turno, come testimoniassero a un processo, che Matteo è intelligente e colto.

Lo stesso si può dire per gli altri. Come l’homme fatale David: occhio socchiuso, sorriso equino, sguardo da Zoolander al quadrato (trattasi del modello brasiliano Thyago Alves). E tutti a dirci quanto è bello David. O come Diego: se gli altri (tranne Matteo, che è un intellettuale) mettono un “cazzo” ogni quattro parole, lui ne mette uno ogni due, perché è lo zotico del gruppo. E tutti a dirci quanto è cafone Diego.

Inevitabilmente, i drammi di questi personaggi senza interesse sono a loro volta senza interesse. Tanto che i personaggi stessi devono esplodere in continue quanto gratuite crisi isteriche per cercare (inutilmente) di conferire credibilità alle loro sofferenze. E il dramma principale, l’unico che coinvolga tutti, è che il cubista dal sorriso equino non ama le donne. Il padre inizia a sospettarlo perché trova il suo book di modello. La madre perché sa fare due più due. Lo zio perché non sa mettere insieme la sua vita ma per qualche motivo pensa di poterlo fare con quella degli altri. Francesca, la moglie di Matteo, perché torna a casa nel momento sbagliato.

Ma il punto è: perché (cazzo, aggiungerebbe qui Diego) l’omosessualità di David dovrebbe essere un dramma tale da giustificare addirittura la morte di Francesca? Dobbiamo davvero credere che un marcantonio come David, che vive da anni a New York, dove fa il modello, possa ancora soccombere al dramma provinciale del non sapersi dire gay? E possiamo non ridere quando Matteo, l’intellettuale Matteo, il brillante psicoanalista Matteo, si mette a piangere perché vede dalla finestra David farsi voluttuose pippe? E non sono molto più credibili l’omofobia di Guido, puro dovere d’ufficio del suo personaggio puerile, o quella della madre, che rimbrotta l’ex marito ma poi rimane afasica a piangere, rimuove e preferisce sfogarsi istericamente su un innocente servizio di piatti.

Dato il contesto sociale e culturale dei personaggi, drammi simili potevano essere credibili, fatti due calcoli, cent’anni fa. È infatti passato giusto un secolo da quando Mann scriveva la sua Morte a Venezia. Ricorda qualcosa? Un intellettuale costretto a calarsi in un contesto vacanziero inferiore al suo livello intellettuale… Combattuto fra l’incapacità di evitare di correre dietro a un ragazzino sulla spiaggia e l’umiliazione borghese patita per questo… Che si abbandona in lacrime al suo trasporto dionisiaco e infine soccombe…

Il compleanno di questo Harold italiota suona alla fine alquanto omofobo, ma non direi per cattiveria, bensì per semplice imperizia. La stessa sgraziata incapacità di maneggiare sceneggiatura, senso e correttezza politica che deflagra nella scena dell’invalido sulla spiaggia. Mentre Diego, da par suo, commenta: «Certo poveretto, eh?», Filiberti ci mostra il soggetto in questione ridere sguaiatamente insieme alla madre (o alla moglie?) che lo abbraccia e lo bacia, sotto gli occhi ammirati di Matteo. E così Filiberti sconfessa uno stereotipo (la compassione che Diego esprime con un luogo comune) proprio mentre ne somministra un altro allo spettatore (la joie de vivre del sempliciotto). Solo che, perché l’epifania del neo-gay Matteo funzioni, dobbiamo pensarla proprio come Diego, e cioè compatire l’invalido che, nonostante la sua anormalità, e non avendone quindi motivo, ama la vita, mentre i normali, che non avrebbero ragione di disperarsi, non sanno apprezzarla. Anche i ricchi piangono? A parte che lo sappiamo almeno dai tempi di Dallas e Dynasty, in questo modo Filiberti, pur non rendendosene evidentemente conto, ammette che il suo film non ha senso, perché i drammi dei personaggi non sono tali.

Dopo questa sequenza, calata nel mezzo del film come la naturalezza che potrebbe avere, che so, un elefante a spasso in piazza Duomo, rimane solo da correre verso il sovraccarico finale: melodramma (wagneriano) a tutto volume amplificato da un montaggio alternato fra l’accoppiamento del sapiente Matteo con il Zoolander da spiaggia e le peregrinazioni in paese degli altri. Si aggiunga un po’ di erotismo patinato e si ottiene un grande intasamento stilistico per raccontare una banalità: la moglie trova il marito a letto con un altro. La montagna ha partorito il topolino.

Il film è tutto così: telefonato, direbbero quegli inglesi cui Filiberti guarda con l’ingenuità esterofila del provinciale, mettendo in bocca ai personaggi di tanto in tanto casuali battute in inglese con la stessa spontaneità con cui un cavallo può vomitare (chiedo venia per la similitudine, però adatta al caso proprio per la sua somma ineleganza).

Mi rimane un solo dubbio: non sarà che il vero dramma alla fine sia che Francesca, sorpreso Matteo sopra Diego, rovina la torta di compleanno lasciandola cadere a terra? Non sono sicuro che per questo meritasse di morire, ma in questo modo tutto avrebbe più senso. Tranne l'evocativo tramonto finale: per quello proprio non c'è speranza.

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