recensione di Mauro Giori
Dietro i candelabri: Liberace in privato
Incarnazione quintessenziale del kitsch, se mai ve n’è stata una, Liberace ha rappresentato nel modo più efficace (anche in termini economici) lo spirito di Las Vegas, dove si è svolta la parte più remunerativa della sua carriera. Celebre per gli anelli, le pellicce, i candelabri e gli altri arredi pacchiani che decoravano le scene dei suoi concerti, il pianista italo-polacco-americano era notorio anche per la pervicacia con cui negava l'evidenza, cioè di essere omosessuale. Giunse sino al punto di portare in tribunale chiunque sostenesse il contrario (il Daily Mirror e il più famigerato giornale scandalistico americano, Confidential, ne fecero le spese). Nel 1987 si cercò persino di tenere nascosta la vera causa della sua more, ma l’autopsia rese pubblico che si trattava di Aids e gli fece nella sostanza un outing contro cui nessun tribunale avrebbe più dovuto esprimersi. La relazione più lunga di cui si abbia notizia Liberace la ebbe con Scott Thorson, di quarant’anni più giovane. Si conobbero nel 1977, quando il pianista aveva quasi sessant’anni e Thorson diciotto, e vissero insieme fino al 1982. Poi Liberace lo rimpiazzò con un amante più giovane e i due andarono per vie legali, ancora una volta.
Dietro i candelabri rievoca proprio questa relazione: il film di Soderbergh è infatti basato sull’autobiografia di Thorson e, dopo essere stato rifiutato da vari studi, è stato infine prodotto dalla sempre friendly HBO. Trasmesso in televisione negli Stati Uniti, è stato presentato a Cannes ed è circolato in sala in Europa (in Italia il film uscirà a dicembre).
Senza nascondere gli anni e le rughe, Michael Douglas interpreta Liberace con sorprendente efficacia e misura, mentre Matt Damon veste i panni di Thorson pur non potendo nascondere di avere oltre il doppio degli anni del suo personaggio. E bisogna ammettere che è un segno dei tempi mutati vedere Douglas e Damon, due attori che si sono promossi come tombeurs de femmes per tutta la loro carriera, dare vita a una coppia gay, cioè recitare in una di quelle parti che un tempo chiunque a Hollywood avrebbe evitato con orrore nel timore di rovinarsi la carriera.
Detto questo, il problema del film non è Matt Damon: in fondo il suo personaggio è quello di un bel corpo senza troppo carisma e Damon ha ancora un bel corpo e non ha mai avuto carisma. Se poi fatica un po’ a farsi passare per adolescente, rende comunque bene la decadenza negli anni della dipendenza dalle droghe. Il problema è invece che la vita privata di Liberace era di una noia mortale e che l’intera parabola dei due si riduce alla solita storia del ricco protettore che riempie di regali il giovane favorito e lo fa vivere in una gabbia dorata sino ad ammorbarlo. Thorson segue con diligenza il percorso di prammatica: dalle stalle alle stelle e ritorno, un po’ perché i protettori sono volubili, un po’ perché i ricchi, oltre a piangere ogni tanto, si annoiano molto e si consolano al solito modo, circondandosi di cose costose e consumando droghe.
Vero è che, almeno come lo rappresenta il film, e cioè come l’ha raccontato Thorson, l'amore fu sincero, ed è forse questo l’aspetto più interessante e meno scontato, sicché nei discorsi pre e postcoitali emergono gli accenti più autentici di entrambi i personaggi, per quanto quello di Liberace rimanga un carattere sfuggente. E questi discorsi sono davvero tanti, sia perché il film è un po' ripetitivo sia perché Liberace pare avesse una libido alquanto sviluppata.
Intorno c’è il solito corollario di solitudine infrangibile e di squilibri di forza, di regali dispendiosi e di insoddisfazioni, di sesso e di infedeltà. Cose già viste tante di quelle volte che il film ne ricorda troppi altri: ad esempio sembra Boogie Nights senza porno, cioè senza la parte più divertente. Liberace viveva recluso in casa con i suoi cagnolini, e due ore di sontuose stanze finto rococò in cui non succede niente e non transita nessuno verrebbero presto a noia anche a un feticista delle scenografie lussuose. Al punto che per movimentare un po’ il racconto Soderbergh ricorre persino al macabro (con i dettagli delle operazioni di chirurgia plastica cui entrambi i personaggi si sottopongono), oltre a un po’ di nudo accuratamente reticente. E ovviamente ha gioco facile a sguazzare nel kitsch (ad esempio nel flashback in bianco e nero o nella visione finale di Thorson).
La biografia complessiva di Liberace sarebbe stata sicuramente di maggior efficacia narrativa, oltreché di notevole interesse: gli anni della graduale trasformazione da promettente pianista classico a showman pop, in particolare, avrebbero meritato senz’altro di essere raccontati. Ma in generale l’interesse del personaggio risiedeva tutto nella sua personalità scenica, non certo nella vita privata (salvo che fosse stata raccontata vent’anni fa), e della prima si dice poco o nulla.