recensione diRoberto Cangioli
Io non so chi sei
Giancarlo Pastore scatta 9 fotografie che raccolgono il vivere quotidiano di altrettanti omosessuali; genuine istantanee in cui è impossibile non riconoscersi o ritrovarsi. Gente comune, alle prese con l’amore, il distacco, il dolore, la solitudine, la presa di coscienza della propria omosessualità, la scelta di viverla consapevolmente, liberamente.
Paradossalmente nel primo racconto il protagonista in prima persona non è gay: in Filippo c’è il vissuto di una madre in cui il divorzio dal marito e l’allontanamento dal figlio gay sono i presupposti per una sconfitta a cui non si riesce a porre rimedio e in cui lei risulta essere la vera vittima. Finocchi mette a fuoco le paranoie che maturano nella testa quando ci prendiamo una cotta (per giunta per uno sconosciuto narcisista che si diverte a farsi corteggiare senza ricambiare le nostre attenzioni) fino a renderci irrazionali, persino infantili. È il momento allora di rimettere le cose a posto e di riguadagnare autostima col sorriso sulle labbra, pensando: “si, alla fine sei come tutti gli altri. Un finocchio, nient’altro che un finocchio”.
Il dolore ci fa soccombere, a volte in maniera irrecuperabile. Ci rende privi di ogni stimolo nei confronti della vita che nostro malgrado dovrebbe continuare; ma quando il nostro amore viene a mancare per un banale incidente, il senso di perdita e di inutilità, aggravati dalle beffarde conseguenze di una mentalità arretrata, rischiano di annientarci completamente (Ghost Whisperer).
Da una parte le tradizioni, le convenzioni (sulla barca di Salvatore i maschi siedono da un parte e le femmine dall’altra), una vita tutto sommato comoda, preordinata; dall’altra l’impellente bisogno di vivere con serenità la propria natura senza finzioni che ci rendono irreali, coperti da una falsa maschera. Il personaggio di U piscicani capisce che è arrivato il momento di prendere una decisione: non salirà più sulla barca di Salvatore, ma resterà sul molo a vederla scomparire al largo.
A questo racconto è legato da un filo rosso Manca il latte: l’impossibilità di vivere un rapporto “normale” determinato dalla quotidianità e il tentativo disperato di piacere per quello che si è, di essere amati al di là della propria fisicità.
La lucidità di pensiero e il linguaggio che Pastore racconta possono spiazzare il lettore per la crudezza se non addirittura per il cinismo di alcuni personaggi nelle 9 storie, ma è sicuramente un modo per contrastare l’anima fragile con cui spesso facciamo i conti e per sorridere davanti agli stereotipi di cui – e non sempre nostro malgrado – siamo partecipi (Caravel).
In Serpenti il seguente stralcio rivela ciò che a lungo abbiamo nascosto, a noi stessi, agli altri; un pensiero che dovremmo avere il coraggio di esprimere nei confronti di chi (a volte pur amandoci) non capisce: “Se ci pensi, un eterosessuale non deve mai affrontare nella sua vita un momento in cui si dichiara alle persone che ama e che gli stanno attorno, ai genitori, alle sorelle, ai fratelli, agli amici, un momento in cui si mette a nudo rivelando i propri desideri più intimi. Gli omosessuali sono costretti a farlo. Sono obbligati, per poter essere amati in modo onesto da chi amano, a rivelare con chi vanno a letto. È uno strappo. Uno strappo al cuore. La maggior parte degli omosessuali questo strappo se lo porta scritto in faccia, negli occhi. L’orgoglio e la fatica di averlo affrontato, la rabbia se non è stato capito, o la vergogna di non volerne sapere. Ma in ogni caso lo strappo è lì, dentro gli occhi”.
Probabilmente il senso di queste storie è racchiuso in Io sono Tommaso…“pensavo che l’amore fosse questo: conoscersi”. Una ragazza che percepisce come naturale il proprio essere e che cerca oltre al sesso fine a sé stesso. Ci sono tanti Tommasi nel mondo, ciascuno con i suoi piccoli e grandi sogni da realizzare, ciascuno con la voglia di amare; è una cosa naturale, no?