recensione diMauro Giori
Homme au bain
Mi ha molto divertito l’uso che Honoré fa di François Sagat, pornodivo gonfiato in palestra e a suon di steroidi (per sua stessa ammissione), quale puro manzo da esibizione e da monta. Il suo ruolo infatti si divide tra accoppiamenti con il fidanzato (a iniziare da un mezzo stupro che sancisce la fine del rapporto), accoppiamenti con passanti di vario genere ed etnia ed esibizioni senza abiti per il sedicente artista del piano di sopra, che lo liquida annoiato facendogli notare quanto la sua bellezza sia kitsch e fasulla. Nel mentre, Sagat proferisce qualche parola più o meno intelligibile e alcuni grugniti (non a caso Bruce La Bruce lo aveva usato come morto redivivo in L.A. Zombie, tediosa rivisitazione in chiave porno delle creature che hanno fatto la fortuna di Romero).
Ma il divertimento (lo riconosco, legato anche a idiosincrasie soggettive) finisce qui. Se infatti il corpulento Emmanuel è sottoposto a critica durante tutto il film, per il fatto che non sa fare altro che togliersi le mutande e saltare addosso al primo che passa, il suo fidanzato mingherlino (Omar) in effetti non fa altro. Eppure dovrebbe rappresentare la metà intellettuale della coppia: lo capiamo perché legge libri e riprende qualsiasi cosa, ma proprio qualsiasi cosa, con la sua telecamerina (il che sarebbe nulla: il problema è che il risultato delle riprese è inflitto allo spettatore). Inoltre va a New York per seguire una scuola di cinema, che è molto chic. Ma di fatto non fa che accoppiarsi anche lui con il primo che capita (un compagno di corso). L’unica differenza è che filma il tutto.
Ora, vi sono sedicenti critici e – chiamiamoli così – “operatori culturali” (ad esempio organizzatori di festival) i quali credono che ogni volta che un regista cita un quadro, esibisce un libro o mette la telecamera in mano a qualcuno, automaticamente sta offrendo profonde riflessioni sull’arte e sull’essenza del cinema, e quindi sulle cose e sulla vita. E l’esistenza di questi sedicenti critici e operatori è spesso l’unico motivo per cui tanti registi mettono in mano ai loro personaggi telecamere, libri e (meno sovente) quadri. Se poi c’è un po’ di nudo maschile, qualche erezione e un pompino dal vero, magari con un po’ di fortuna si attira pubblicità. Avendo superato da un po’ di tempo l’adolescenza, occupandomi di cinema da più anni di quanti vorrei contarne e non provando scandalo né per il corpo maschile né per la sua idraulica da più anni di quanti ne abbia spesi a occuparmi di cinema, trovo tutto questo rumore fasullo e inutilmente distraente, pura strategia commerciale cui tanti untori della critica che vorrebbero giocare ai nuovi Cahiers du cinéma si prestano, talvolta senza nemmeno rendersene conto. Perché il rumore inevitabilmente prima o poi si acquieta e l’opera alla fine, se non da subito, non può che mostrarsi per quello che è. Se sta in piedi, si regge da sola e senza bisogno di stampelle; se cede, produrrà un fracasso proporzionale agli sforzi fatti per farla stare artificialmente in piedi con scandaletti e intellettualismi. Homme au bain cede, sicché la selezione a Locarno e l’incenso cosparso da certa critica non basta a dare l’impressione contraria.
Honoré è un regista tanto estroverso quanto discontinuo, che aveva già dato qualcosa di interessante ma di irrisolto in televisione e aveva già abbondantemente lavorato sul corpo del bel Garrel in Ma mère e in Les chansons d’amour. In questo caso sbaglia semplicemente il colpo (come lo aveva sbagliato con Bataille), perché il suo film appare irrisolto, come girasse a vuoto e in tondo, senza portare da nessuna parte, senza approfondire e senza saper fare dell’esibizione del corpo un lavoro sul corpo, pur millantato nelle interviste. Ma se si vuole vedere un porno con Sagat c’è l’imbarazzo della scelta, giacché quello è il suo mestiere, e se si vuole una vera riflessione sul corpo, sull’arte, sul cinema e sulla vita non la si trova di certo qui.
Peccato, perché sarebbe bastato lavorare meglio sui personaggi, rendere più significativo il loro percorso e più sensate le loro interazioni. Qualcosa del genere si sfiora nei flashback sulla relazione tra Emmanuel e Omar, dove al centro ritroviamo sempre il corpo nudo e il sesso, ma in forme capaci di trascendere la pura fisiologia per cogliere frammenti di esistenza in modi meno didascalici e posticci del far leggere a un giovanotto semianalfabeta (ovviamente nudo) un articolo sull’omofobia del cardinal Bertone mentre il nerboruto Emmanuel si sta (ovviamente) accoppiando con un ragazzetto nero sul divano.
Tutto il resto potrebbe funzionare come esercitazione, studio per un film da farsi, che sarebbe piaciuto vedere. Ma questo essendo invece il film fatto e finito, vi è solo il fumo, dissipato il quale l’arrosto che se ne ricava non basterebbe a sfamare un criceto.