recensione diMauro Giori
Ode a Billy Joe
Melodramma rurale, pare girato negli anni Cinquanta anche se si ispira a una celebre ballata di Bobby Gentry del 1967, nella quale si racconta del suicidio di un giovane, Billy Joe, per ragioni che non vengono chiarite. Alcuni anni dopo Herman Raucher ne ha ricavato un libro e una sceneggiatura, nelle quali si immagina che la ragione del gesto disperato di Billy sia da ricercare nella sua omosessualità.
Il film sceglie una vena leggera, quando non comica, e rimane esile anche di fronte alla morte, finendo tuttavia col riciclare prescrizioni che allora andavano ancora per la maggiore nei racconti su giovani omosessuali, sfociando nell’inevitabilità della tragedia: il giovane gay di provincia cerca prima di rimuovere tutto facendo una corte ansiosa e iperattiva a una piacente fanciulla; quindi gli basta bere un po’ per cascare nell’inevitabilità dei suoi reali desideri; infine si isola dalla comunità per tre giorni vivendo nei boschi e si suicida, dopo aver confessato tutto alla sua ragazza. La quale sacrifica se stessa lasciando il paese e facendo credere a tutti di essere rimasta incinta, in modo che il suicidio del ragazzo venga sublimato e trasformi la vittima in una sorta di leggenda.
Ora, confesso che mi sfugge perché – pur premesso il contesto soffocante di questa assolata provincia dell’estremo sud statunitense – suicidarsi per aver messo incinta la propria fanciulla debba dare luogo a mitopoiesi mentre suicidarsi per essersi scoperto gay solo al disprezzo, ma ad ogni modo è proprio il tono leggero complessivo e privo di sbalzi a non consentire al doppio finale della ballata di raggiungere come vorrebbe le vette dell’epica. Il sacrificio della ragazza sarebbe stato giustificato, quale dignitoso rifiuto della stupidità delle convenzioni, di fronte alla reazione violenta, esacerbata, irrazionale della famiglia o della comunità, che invece non ha luogo, rimanendo pertanto una scelta poco comprensibile e sproporzionata agli effettivi condizionamenti del contesto. Di conseguenza tutto appare un po’ troppo prevedibile, privo di un pathos sentito, e incapace di fare presa.