recensione diMauro Fratta
A Heaven of Words
Se non che in seguito la circostanza venne quasi a gettare simbolicamente sui destini editoriali dello scomparso scrittore americano una specie di malefica ombra lunga, come attesta la sorte del suo materiale diaristico: dei progettati volumi che avrebbe dovuto far uscire Farrar, Straus & Giroux ne comparve uno solo, Continual Lessons, nel 1990, contenente pagine fino al 1955; e che si tratti soltanto di excerpts, ed esista dunque chi sa quanto altro d’inedito, ce lo conferma lo stesso Rosco. Perché il lettore potesse conoscere il resto del diario di Wescott s’è dovuto attendere l’anno scorso, e tutto fa pensare che ancora si tratti di excerpts.
La foggia stavolta è meno prestigiosa, e temo che tale sia anche la cura editoriale, pur affidata al devoto Jerry Rosco. Me ne sono reso conto da qualche sgradevole infortunio di cui mi sono accorto ad una semplice lettura. A p.135 Wescott menziona un presidente francese “Auriel” che aveva insignito il compagno del Nostro, Monroe Wheeler, della Legion d’onore; pensando ad un refuso, controllai l’indice dei nomi: niente, anche lì Vincent Auriol diventava Auriel. Non so se l’errore sia colpa della memoria di Wescott o d’una cattiva decifrazione della pagina: fatto sta che nessuno l’ha segnalato come tale e, quel ch’è peggio, nessuno se n’è accorto. Il caso si ripete poco dopo a p.142, ove l’autore menziona one of the artists at the court of Philip IV, an accademic mannerist of Italian extraction named Vincente Larducho, volendo chiaramente indicare il pittore e trattatista fiorentino Vincenzo Carducci, trasferitosi appunto alla corte di Madrid ed ispanizzatosi come Vicente Carducho; solo un’ispezione dei manoscritti originali potrebbe confermarci se Wescott lo ricordasse, sbagliando, come Larducho: di sicuro il curatore non s’è posta la domanda, perché, Carducho o Larducho che fosse, non l’aveva mai sentito menzionare, né s’è curato di cercarne notizia: tale e quale lo riporta nel testo e nell'indice. Ancora, a p.179 compare, collegato alla prefigurazione della propria morte, un enigmatico nune dimmetus in cui penso di avere riconosciuto una storpiatura dell’inizio del Cantico di Simeone, Nunc dimittis: e qui si può benissimo essere sovrapposta una svista del trascrittore (la “c” di nunc divenuta “e” con un errore che, come sanno gli studiosi di paleografia, è frequentissimo) ad un latino fallace di Wescott, il quale ricorda le parole come escono se deformate dalla pronunzia inglese: svarione tanto più facile in un letterato non di religione cattolica, cui dunque non potevano nemmeno venire in soccorso, almeno prima degli sconquassi montiniani, le reminiscenze liturgiche: ma, comunque sia, il curatore dell’opera, davanti a due parolette in latino malridotto, s’è limitato a fare spallucce come quegli antichi copisti che annotavano sconsolati Graecum est, non potest legi. E chi è l’editore? University of Wisconsin Press. E poi ci lamentiamo delle università di casa nostra.
Tale sospetto di sciatteria in un testo che, dopotutto, con ogni probabilità non vedrà mai la luce in forme migliori e in una selezione più ampia, non deve però far velo all’enorme interesse di ciò che vi possiamo trovare. Rispetto alle parti più antiche del diario, le annotazioni di Wescott vi diventano quasi sempre assai brevi: ma vi conosciamo tanto sull’uomo e sui suoi affetti, sulla letteratura, su scrittori conosciuti o rievocati, sulle arti figurative, sulla musica, sulla vita culturale nell’America del tempo, che l’unico rammarico viene soltanto dall’esiguità del materiale. Vi si trovano frequenti impressioni di lettura, pieni di grazia aforistica, che rivelano gusto ed acume, come questa del 20 febbrario 1966: “Is Marshall McLuhan of the university of Toronto to be taken as seriously as a writer, or is he just a university journalist, experimenting professorial paradox in non-English, so as to impress youngsters?”.
Caso curioso, Wescott, così (sanamente) conservatore sul piano letterario, era di tutt’altre tendenze nella sua vita privata: non solo collaborò con entusiasmo alle ricerche sessuologiche del famoso dottor Kinsey, e coi suoi allievi dopo la morte di Kinsey stesso, ma, nei limiti che gli permetteva l’età non più verde, viveva con disinvoltura nell’ambiente gay sempre più libero della New York fra gli anni Sessanta e Settanta; leggiamo cenni, per esempio, alla ghiotta gioia con cui periodicamente visitava i primi cinematografi che proiettavano pellicole porno: una volta sola, in realtà, descrive anche una scena di adescamento, perché si vede che il pubblico ivi reperiva con facilità prede più giovani e piacenti di lui. Come già era avvenuto in passato, Wescott portava avanti storie di amore e di sesso con uomini molto più giovani (e a volte accenna anche a sesso di gruppo), ma restò sempre legato all’amatissimo Monroe Wheeler: le parole che gli dedica negli ultimi anni, piene d’una passione tenera e profonda, si ammantano sempre più spesso d’uno spoglio e commovente lirismo. Sarebbe assai bello anche veder pubblicata la loro corrispondenza, visto che, per motivi di lavoro di Wheeler, i due passavano periodi notevoli di separazione fisica: ma temo che, essendo gli studiosi americani, e soprattutto quelli gay, in tutt’altre faccende affaccendati, questa rimarrà una pia speranza.