recensione diGiovanni Dall'Orto
Presentazione di Marco Pedretti
Conobbi Giovanni Dall’Orto diversi decenni fa.
In un certo senso potrei dire addirittura di aver conosciuto “diversi” Giovanni Dall’Orto.
Il primo Giovanni Dall’Orto che ho conosciuto era l’autore di Figli diversi: un libro scritto da lui, insieme con sua madre, all’inizio degli anni Novanta, e indirizzato soprattutto ai genitori di persone omosessuali. Libro che andai a comprare e che “sbadatamente” dimenticai sulla poltrona della mia camera; ovviamente mia madre mangiò la foglia, si prese il libro, se lo lesse e fece sue un sacco di cose. Forse io desideravo che il libro, lo trovasse e lo leggesse mio padre: non è andata così, e a distanza di venticinque anni faccio ancora fatica a educarlo.
Il secondo Giovanni Dall’Orto che ho conosciuto era il direttore di Pride, una bella rivista gay, negli anni in cui stava diffondendosi Internet, con tutti i profondi cambiamenti che questa diffusione stava provocando nella comunicazione e anche nell’attivismo per i diritti. E difatti, al di là di Pride che pure apprezzavo molto, avevo contattato Giovanni per via del suo sito, in cui stava recensendo e pubblicando testi del passato che parlavano di omosessualità: poesie, testi legislativi, passi di trattati. Il suo ufficio si trovava al piano di sopra della libreria Babele di Milano, e bisogna essere gay, lombardi e almeno trentenni per capire che cosa sia stata la Babele per i gay, lombardi, allora adolescenti e non solo.
Il terzo Giovanni Dall’Orto che incontro oggi è quello di “Tutta un’altra storia”, in cui lega insieme (non solo materialmente in un volume) i frutti di anni di ricerche, studi, letture, articoli, sulla storia dell’omosessualità maschile, con alcuni utili riferimenti a quella del lesbismo e del transessualismo. Il rapporto tra questo libro e il sito web è quasi imprescindibile, come d’altra parte penso sia ugualmente imprescindibile il rapporto tra il Giovanni studioso e il Giovanni attivista.
Un libro denso e sostanzioso (anche per dimensioni), che rimanda spesso ad un sito web che è quasi una vera e propria banca-dati.
Forse, un modo per farsi passare la voglia di leggere questo libro è guardarlo chiuso, magari di profilo, o al massimo spiare il numero dell’ultima pagina: 728.
Un modo, invece, per lasciarsi attrarre nella lettura del saggio consiste nell’aprirlo, e cominciare a leggere. Dall’inizio, ovviamente, ma volendo anche da uno qualsiasi dei brevi capitoli in cui è suddiviso. Lo stile di scrittura, infatti, è tutt’altro che pesante o “accademico” nel senso deteriore del termine: i capitoli si succedono agili, e possono facilmente essere letti a uno a uno: molti approfondimenti, non solo bibliografici, si trovano nelle note, se non addirittura in un corposo repertorio scaricabile dal sito.
Vi dicevo che i capitoli godono di una certa autonomia l’uno dall’altro: ognuno comincia con una gustosa citazione e spesso termina con una pungente nota dell’autore, quasi un aforisma.
Sarei completamente fuori strada, però, se pensassi che i capitoli si susseguano slegati o uniti soltanto dallo scorrere della cronologia.
Esistono, secondo me, delle linee di ricerca e di critica che percorrono tutto il libro.
Ovviamente non pretendo qui di riassumere il testo, o meno ancora di ridurre in uno schema il pensiero dell’autore. Mi limito a presentarvi, attraverso alcune citazioni, alcune linee di ragionamento e di tensione argomentativa che io ho individuato nel saggio.
Uno non può che essere il confronto con due atteggiamenti radicalmente diversi che si trovano in chi fa “storia gay”. Da un lato la pre-comprensione di chi afferma – come Mario Mieli – che «un fil rouge che unisce gli omosessuali di tutte le epoche e di tutte le culture, come base su cui costruire la lotta comune» (14). Dall’altro un pensiero che sbrigativamente si riconduce a Foucault, Derrida e Judith Butler, ma che in realtà è piuttosto tipico di molti loro discepoli meno acuti dei maestri, pensiero secondo il quale «l’omosessualità sarebbe una convenzione sociale, più precisamente una “costruzione sociale” creata dal Potere per opprimere la libera sessualità umana, che non può essere rinchiusa in definizioni» (14). Con una lucidità che io apprezzo, Giovanni Dall’Orto resta saldo sulla prima posizione: è ben vero che per secoli l’omosessualità non ha osato “dire il proprio nome”, e quindi tanto l’amore quanto l’attività (omo)sessuale sono state pensate e “dette” facendo ricorso a parole e categorie diverse da quelle che utilizziamo da poco più di un secolo; ma è altrettanto vero (e i documenti ce lo testimoniano) che la coscienza di avere una “natura”, un “tropos”, una “inclinatio”, diverse da quelle della maggioranza normativa era ben presente anche negli omosessuali (o nei sodomiti) del passato.
Una seconda linea è la denuncia dell’ingenuità di chi vorrebbe scoprire, per esempio, “la concezione dell’omosessualità nel mondo greco”, oppure “come era vista l’omosessualità nel Medioevo”. «In ogni dato momento storico diverse categorizzazioni dell’omosessualità convivono, spesso contraddicendosi e combattendosi» (16). E ancora: «La documentazione mostra che ogni società tende a coltivare contemporaneamente più concezioni dell’omosessualità, anche contraddittorie e inconciliabili, e queste concezioni si accavallano, si fondono, si mescolano e si trasformano a vicenda, in una continua dialettica tra “discorsi” e “controdiscorsi” nella quale è del tutto arbitraria la pretesa di indicare la concezione dell’omosessualità in un dato momento storico» (76).
Un terzo “filo rosso” è il rapporto inscindibile tra identità, stili di vita, e cultura. L’ingenuità di una certa teoria queer che si muove sotto le insegne dell’“Io sono ciò che voglio essere” si manifesta nel non fare i conti con quanto quel “voglio essere” sia condizionato, determinato, a volte anche imposto, dalla società in cui ci muoviamo. Scrive Giovanni: «Anche se il desiderio sessuale è per tutti noi un fenomeno che “detta dentro” a prescindere dalla nostra volontà razionale e dalla nostra educazione, quando passiamo al modo di manifestare tale istinto, la sua espressione con altri esseri umani richiede un linguaggio, che come ogni linguaggio s’impara dall’esterno, cosicché ciascuno di noi lo esterna secondo gli schemi culturali (e i ruoli, e gli stili di vita, e i significati simbolici) dell’epoca in cui vive. Ecco perché lo stile di vita omosessuale da un secolo all’altro cambia» (223).
Ultimo atteggiamento costante che riconosco in questo libro, e forse quello che mi piace di più, è il tentativo di sfatare i luoghi comuni. Compresi quelli che si sono ben stabiliti anche all’interno della comunità omosessuale: a volte si tratta di smontare delle vere e proprie bufale (i finocchi si chiamano così perché nei roghi medievali buttavano finocchio sulla legna per coprire l’odore di bruciato), a volte si tratta di decostruire affermazioni perentorie che anch’io mi sono sentito ripetere anche dai professori del liceo:
i Romani erano tutti bisessuali,
nell’antica Grecia ogni rapporto omosessuale era tranquillamente accettato,
il rapporto educativo in Grecia prevedeva un giovane precettore e un allievo adolescente che facevano sesso tra di loro,
il mondo classico era “tollerante”, poi è arrivato il cristianesimo che – di punto in bianco – ha determinato un cambio totale all’insegna del puritanesimo e dell’omofobia.
Mi avvio verso una conclusione.
Io mi occupo di Medioevo, e posso dire di avere apprezzato molto le pagine dedicate a questo lungo e variegato periodo storico.
In particolare, penso di condividere la posizione secondo la quale un vero e proprio “salto”, il cambio di mentalità e di prassi che ha portato ad accendere i roghi per i sodomiti, sia stato determinato in gran parte dalla elaborazione teologica e dalla predicazione degli ordini mendicanti.
Teologi francescani e domenicani costruivano una teoria secondo la quale l’atto sessuale tra due uomini sarebbe il più turpe dei peccati “contro natura”, e predicatori francescani e domenicani organizzavano delle vere tournée di predicazione in cui non mancava mai l’accusa contro lo schifo della sodomia dilagante (dilaga sempre, sono duemilacinquecento anni che dilaga…), ma soprattutto premevano perché gli statuti delle città o dei territori in cui arrivavano fossero corretti in direzione persecutoria.
Secondo la felice definizione dello storico Rinaldo Comba, questo era “il progetto di una società coercitivamente cristiana”. Se posso permettermi di offrire un contributo mio, penso che sarebbe interessante studiare analogie e differenze con quello che capitava, in quegli stessi anni, agli Ebrei.
In una città arrivava il Vincenzo Ferrer o il Bernardino da Siena (o quello da Feltre) di turno, predicava in piazza radunando migliaia di fan infervorati, lanciava parole di fuoco contro i sodomiti disgustosi o gli Ebrei ladri. Spesso da quella folla di ascoltatori si staccavano corposi gruppi di esaltati che andavano nel ghetto ad ammazzare un po’ di gente o a devastare sinagoghe. Poi il frate lasciava la città, e guarda caso troviamo in quei mesi una modifica degli statuti comunali, con misure repressive proprio nei confronti di queste due categorie. Lo statuto di Treviso, che prevede il rogo per gli omosessuali maschi e anche per le donne, risale al 1313. Sia chiaro, può benissimo essere una coincidenza, ma sarebbe comunque un segnale di una particolare circostanza nella storia della cultura: è lo stesso periodo in cui il convento domenicano aveva un’egemonia ineguagliata in città, e si stava ricostruendo una chiesa, San Nicolò, enorme, più grande di ogni altra chiesa della città, per radunare migliaia di persone ad ascoltare la predicazione dei frati.
I tempi sono cambiati, certo. Ma lo studio della storia ci insegna almeno a tenere occhi bene aperti.