Scandalo e banalità

10 maggio 2016

A volte, quando termino un libro e mi metto in animo di scriverne un commento, mi sento imbarazzato da un senso di pochezza da cui finirei paralizzato, se non fosse perché a superarlo sopravviene la volontà di rendere giustizia all'autore, tanto più, come nel caso presente, se nessuno qui prima di me ha scritto qualcosa in merito; e allora metto le mani avanti, chiedendogli venia se scrivo crassa, ut aiunt, Minerva. D’altronde, data la mole del saggio, non potrei che accennare ad alcuni soltanto fra i numerosi temi che vi sono discussi e sviscerati. Quest'opera costituisce la seconda parte dell'analisi condotta da Mauro Giori sull'eros e lo scandalo nel cinema di Visconti: la prima giungeva fino a Rocco e i suoi fratelli, questa parte dal Gattopardo. Nonostante la continuità sostanziale nell'approccio e nei criterî esegetici seguiti, la cesura non risulta casuale, perché proprio dalla metà degli anni Sessanta quello che era apparso uno dei registi più discussi, censurati e perfino insultati per le sue scelte estetiche e tematiche andò incontro ad un'accettazione progressiva da parte anche di molte fra quelle componenti della critica, come la stampa cattolica, che in precedenza lo avevano osteggiato con asprezza. Le ragioni di questo mutamento prospettico sono molteplici: da un canto senza dubbio l'attenuato rigore delle norme sulla censura cinematografica portò, dagli anni Sessanta, alla possibilità di mostrare situazioni per l'innanzi nemmeno proponibili; dall'altro, però, il sentire comune si andava modificando lentamente, sicché anche la soglia dello scandalo s'innalzava, sia pur molto adagio. Inoltre i temi scelti da Visconti almeno per alcune delle sue pellicole del tempo, non erano adatti a causare immediato scandalo: va considerato peraltro che anche dove le occasioni ci sarebbero state il regista e i suoi collaboratori alla sceneggiatura cooperarono spesso nel prosciugare dialoghi e rappresentazioni da molti elementi discutibili sul piano moralistico. Nei casi viceversa in cui Visconti metteva sulla scena per esempio direttamente l'omosessualità, questo suo innato ritegno linguistico ne smussava e stilizzava la raffigurazione sin sul nascere; per giunta, in genere sopravvenivano ulteriori elementi a rendere quest'erotismo problematico più accetto anche alla critica conservatrice: la derivazione dell'opera da un grande classico in Morte a Venezia, l'evidenza d'una netta condanna politica o morale dei personaggi nella Caduta degli dèi, la peculiarità biografica e psicologica del protagonista in Ludwig. Mentre dunque l'idioma figurativo e persino la materia si andavano complicando e per certi versi appesantendo (e sul Visconti "decadente" le ironie "da sinistra" in quei tempi di sprecavano), l'erotismo si stilizzava, si rastremava, si faceva sempre più elegantemente allusivo: si faceva verecondo, verrebbe da dire, se l'ossimoro non apparisse ironico; il regista milanese non era mai stato, a dir il vero, troppo esplicito, tantomeno sguaiato e violento, nell'espressione della sessualità: e ormai la sua eleganza e il suo ritegno potevano apparire addirittura difetti, se confrontati ai saturnali sulfurei e terragni d'un Pasolini. Appare dunque curioso il fatto che, nel contempo, alla delicatezza dello sguardo si accompagnassero una concezione problematica della sessualità, e una visione disagevole, forse anche irrisolta di essa, quale, con ogni probabilità, sarebbe emersa con particolare forza nel caso in cui fosse andato in porto il progetto proustiano di Visconti. Come nota Mauro Giori, nel progetto di trarre un film dalla Recherche, o meglio dalle vicende da Sodoma e Gomorra in poi, sarebbe venuto a mancare tutto ciò che d’ironico e di lieve vi circonfonde anche la visione pessimistica dell’erotismo di Charlus: mentre nel Temps retrouvé perfino la scena sadomaso nel bordello di Jupien fluisce venata dal caratteristico sorriso mondano di Proust, la sceneggiatura insisteva esclusivamente sugli aspetti violenti e cupi; e la violenza sadica, innestata nel momento tragico della Parigi in guerra, vi era scorta come un oscuro prodromo delle violenze naziste già messe in luce nella Caduta degli dèi, col loro intreccio drammatico di perversione sessuale e ideologica. Le analisi delle pellicole anche qui, come nell’opera precedente, sono condotte con un’acribia e una sottigliezza esemplari, studiando a fondo la stratificazione di letture di fonti narrative o saggistiche, interpretazioni anche confliggenti, suggestioni e versioni di soggetti e sceneggiature al termine delle quali si arriva, sovente solo in sede di riprese o di montaggio, alla forma finita che vediamo sulla pellicola: in Ludwig anzi il montaggio stesso costituisce una delle questioni principali ancor aperte, dato che la versione del film oggi diffusa non esprime sicuramente l’ultima volontà del regista. Con ciò l’autore dimostra un’altra volta quanto la filologia sia imprescindibile anche nell’’interpretazione dell’opera di cinema; e davvero leggendo queste pagine, frutto di molte letture, molto meditate e molto cesellate, ci si rende conto di quale ricchezza di suggestioni ermeneutiche una continiana critica degli scartafacci sia capace d’apportare allo studioso d’un film. Se poi da questo mio breve commento ciò non viene compiutamente alla luce, dipende solo dalla mia impreparazione tecnica in materia e dalla mia scarsa capacità di scrivere di cinema.
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