Se non ricordo male, Northrop Frye scriveva che la satira è un genere letterario invernale: sarà per ciò, potrebbe pensare il lettore di questo romanzo, che Edmund White, giunto, alla sua età ormai rispettabile, all’inverno degli anni, indulge tanto volentieri all’elemento satirico in questo romanzo, sebbene in realtà un certo amore per la satira lo abbia sempre dimostrato. Il problema è che l’autore americano, innamoratosi della Francia dopo un suo lungo soggiorno a Parigi negli anni Ottanta, secondo me vorrebbe tanto scrivere alla francese: qui ad esempio aspirerebbe a riecheggiare la commedia parigina, più Feydeau, a dir il vero, che Marivaux, nonostante il suo amore per il Settecento gallico – e a chi non piace, dopotutto, il Settecento gallico? Solo che Feydeau era un genio dei tempi teatrali, mentre nel romanzo di White la scena principe, che poi sarebbe il classico “Cielo, mio marito!”, la quale opportunamente cade verso la fine, si sgonfia presto come un soufflé venuto male, anche se per fortuna il finale a sorpresa suona davvero grazioso. Come spesso nella commedia classica, i personaggi si caratterizzano per uno spiccato antirealismo: abbiamo, così, un protagonista modello di Clermont-Ferrand, ma trapiantato a New York, divinamente blasé, forse niente affatto intelligente o forse astutissimo ma oltremodo abile nel non darlo a vedere, campione nel far innamorare di sé gay attempati e milionarî che senz’attendere quasi contraccambio gli regalano immobili di pregio pressoché a sua insaputa (in Italia ciò capita invece ai ministri: ennesima riprova della nostra decadenza estetica e culturale codesta pratica di donare case di lusso a politicanti brutti e noiosi anziché a ragazzi belli ed eleganti); c’è poi il suo agente, parigino dalla lingua spietata, che pare uscito da Il diavolo veste Prada, ma con più stile; c’è un barone belga masochista, molto agé e molto maligno e davvero sporcaccione, ma tutto attucci e mossette e birignao da tante del tempo che fu; c’è un produttore cinematografico ebreo americano, che a sessant’anni ne vorrebbe dimostrare venti, e si fa devastare dalla chirurgia estetica come certe dive sul viale del tramonto o anche prima; c’è uno studente d’arte colombiano passionale, bellissimo, dotatissimo, affamatissimo di sesso, insomma il triplo concentrato dello stereotipo latino; e c’è uno studente di Scienze Politiche proveniente dal Minnesota (come White), biondo, carino e un po’ scemotto, come sempre in White i ragazzi del Midwest quando arrivano a New York. Figure, descrizioni e vicende, per chi conosca i precedenti libri dell’autore, riservano una vasta panoplia di déjà vu; anzi, per dirla tutta ormai sembra che il Nostro faccia narrativa come altri facevano Arte Povera coi soliti pezzi di legno, i brandelli di iuta, i chiodi raccattati nei cantieri: solo che lui gli objets trouvés li tira fuori sempre dal solito sacco delle Situazioni, dei Temi e dei Topoi, dalla Fire Island del buon tempo antico, tutta feste ed estasi chimiche e orgasmiche all’AIDS che arriva e spazza via un’intera generazione bellissima e piena di vita. E non manca neppure il confronto perpetuo tra U.S.A. e Francia (o Europa in genere), con quei poveri americani che diventano innocents abroad perfino a casa loro, basta che capiti a cena o sulla spiaggia neanche un pronipote del Barone di Charlus, ché all'uopo è sufficiente un alverniate di lignaggio proletario. Ma purtroppo questa mania del raffronto antropologico piace da matti a White, e gli prende la mano: v’indulge ogni tre pagine, e gli europei fanno così, e invece uno del North Dakota qui direbbe cosà; un po’ come quei vecchietti andati in gita parrocchiale all’estero che riferiscono mirabilia e stravaganze forestiere viceversa già notissime all’uditorio, ché le si vede perfino nei documentarî sulla Rai. Insomma, White, al contrario di Paganini, si ripete: arte del palinsesto, del tema con variazioni? Secondo me, le cose importanti della sua vita sono quelle, e a lui piace riscriverle; e le riscrive pure in modo scorrevole. Il guaio è che noi lettori le abbiamo già lette, e in libri più belli e riusciti di questo, dove quei temi e quelle situazioni erano di volta in volta satira dolceamara o epica o elegia, ma sempre intense, sincere e poetiche.