Prima che mi scordi di quando si batteva con Barthes…

30 settembre 2018

Pierre: Toutoune è morto. Devo trovarmi un ragazzo intelligente, civettuolo, vivace…

David: Com’eri tu quarant’anni fa.

Pierre: E io sono Toutoune. È la vita.

Ecco, il film è tutto qua. O meglio, la sua parte migliore, il cui assunto è mettere in scena la circolarità dell’esistenza, la quale in certe sue vicende basilari non fa altro che ripetere se stessa di generazione in generazione. Una banalità, certo, ma probabilmente non per quei giovani gay che di generazione in generazione si illudono che la gioventù finisca a 25 anni, tranne la loro ovviamente («In un bar sei vecchio a quarant’anni», spiega mestamente Pierre al suo psicoanalista). Mostrare allora come di quella soglia così arbitrariamente sconsiderata faranno (presto) essi stessi le spese è fonte di una certa goduria per chiunque l’abbia già passata, nonché per chiunque fosse già dotato di raziocinio prima di passarla.

Così il protagonista, Pierre, prostituto che a 25 anni si era innamorato ricambiato di un milionario, Toutoune, ora si ritrova a 60 a pagare lui giovani marchette. E mentre aspetta che il settantacinquenne Toutoune tiri le cuoia, poiché nel testamento l’ha designato suo erede, sogna di trovare qualcuno come il se stesso di quarant’anni prima. La vita, appunto, è tutta qui.

O quasi, perché siamo in un film francese e quindi Pierre a vent’anni non è che andava a battere con gente qualsiasi, ma con Roland Barthes, filosofeggiando con lui tra un cliente e l’altro, e ora, anche se non ha mai letto un libro in vita sua, ne sta scrivendo uno in cui filosofeggia a sua volta sul senso dell’esistenza. Il cinema francese è anche lui un po’ come la vita, si ripete sempre uguale a se stesso, incapace di rinunciare a infilare intellettualismi ovunque. Ma qui non se ne sarebbe sentito davvero il bisogno: non servono a spezzare la monotonia un po’ lugubre del film, aggravano l’impressione che i personaggi recitino sopra le righe e non aggiungono nulla a una riflessione sull’esistenza che, nella sua semplicità, è già tutta negli eventi raccontati, e che avrebbe potuto semmai godere di qualche tocco ironico. Ma i francesi tendono a prendersi molto sul serio.

A parte ciò, Jacques Nolot, regista e protagonista, ha il pregio di mettersi letteralmente a nudo, a 64 anni, con il suo corpo che mostra tutti i suoi anni, come non molto tempo dopo avrebbe fatto Guiraudie, a quasi 50, ne Lo sconosciuto del lago. Godere di tali dissacrazioni dell’edonismo esasperato che riconosce il solo modello approvabile nel kouros uscito di palestra a miracol mostrare non è questione di gerontofilia, ma solo di semplice maturità. Ad esempio, una delle marchette frequentate da Pierre gli dice con un certo compiacimento di essere certo di morire prima di invecchiare e che quindi non diventerà mai come lui. Anche a questo genere di sciocchezze la vita, nella sua ciclicità, si incarica di porre rimedio: è infatti la stessa cosa che diceva Pierre da giovane, e ora si ritrova solo, sull’orlo del suicidio, a meditare su un libro che probabilmente non vedrà mai la luce e a spendere i pochi soldi che ha in prostituti, in uno psicoanalista a occhio totalmente inutile, e in medicine (essendo sieropositivo).

Il film non è esattamente travolgente, né può vantare alcuna seduzione formale, ed è tutto sommato anche meno riuscito del precedente La chatte à deux têtes (2002), ambientato in una piccola comunità frequentatrice di un cinema porno. Forse non per caso è rimasto il terzo e ultimo film di Nolot, attore prestato alla regia. Tuttavia, il cinismo rassegnato di cui fa mostra ha un suo risvolto salutare.

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