recensione diMauro Giori
Lo sconosciuto del lago
Mi pare giunto il tempo di rassegnarci ad ammettere che gli scandali sono come le stagioni: non sono più quelli di una volta. Rievocare ossessivamente i turbamenti in sala a Cannes (dove l’ultimo vero scandalo – e dico vero, non motivato – si è registrato, a mia memoria, con Crash di Cronenberg), come hanno fatto molti giornali e siti, è sintomo di pigrizia intellettuale da voyeur cui non solo piace, ma basta l’idea di essere testimone di una provocazione. Ovviamente i pubblicitari non chiedono di meglio, rivelando però solo scarsa fiducia nel film che hanno fra le mani o nel pubblico, o in entrambi.
Gonfiare lo scandalo dove non c’è fa soprattutto danno quando il film – com’è il caso dello Sconosciuto del lago – abbia meriti sufficienti a stare in piedi da solo, senza stampelle pruriginose e morbosette che potranno (forse) arrossare le guancine di quattro sciure della vecchia borghesia, quelle che ancora misurano l’eleganza in chili di gioielli e che, da che mondo è mondo, di razionati turbamenti si compiacciono.
Così facendo si creano attese che la maggior parte degli spettatori (quantomeno di quelli gay, che è facile prevedere costituiranno una buona percentuale del pubblico) non troveranno confermate, e allo stesso tempo si condiziona la visione indirizzando l’attenzione dello spettatore su quei tre o quattro momenti in cui l’attività sessuale si fa esplicita, a scapito di tutto il resto. Momenti, si capirà bene, che di essere sottolineati non hanno bisogno e cui proprio i francesi dovrebbero essere più di altri abituati, avendo sfornato da soli la maggior parte dei film in cui il sesso è performato dal vero (da Breillat in avanti, fino ad arrivare a Q e Chroniques sexuelles d’une famille d'aujourd’hui).
Mi arrischio a sostenere che il gay che non ha mai esperito una qualche forma di battuage, o che comunque è sufficientemente ingenuo delle cose del mondo da poter davvero porporeggiare in sala anziché sorridere divertito, è raro quanto l’unicorno, o più probabilmente deve ancora nascere. Si tratti del romano Aniene di pasoliniana memoria, del lombardo Ticino, del romagnolo lido di Dante o di qualsiasi altro equivalente specchio d’acqua regionale, la letteratura di queste umane cose è piena, l’arte figurativa non le ha mai taciute, non si capisce perché dovrebbe far scandalo che alla buonora ci arrivi anche il cinema.
E Guiraudie lo fa nel modo migliore, cioè con realismo e sprezzo di qualsiasi convenzione estetica. Anzitutto nel rifiutare di lasciare fuori campo il nudo (che, trattandosi di spiaggia nudista, abbonda) e il sesso (che, trattandosi di spiaggia nudista finalizzata a rimorchiare, abbonda). Ma soprattutto non ha tema di contravvenire all’idea di bello corrente che di solito condiziona in modo univoco e annoiante questo genere di rappresentazioni. Non fa quindi selezioni fotogeniche in base al numero di addominali, all’entità di preventivi sfoltimenti del manto pilifero, alla rispondenza alle proporzioni dell’uomo vitruviano. Né verifica la date di nascita: a occhio nessuna comparsa ha meno di trent’anni, e molte ne hanno non pochi di più (lo stesso regista si mette in gioco in prima persona, subito all’inizio del film, con i suoi cinquant’anni suonati). E questo non per gusto della provocazione, ma perché si dà il caso che così vada il mondo (di cui i luoghi di battuage fanno parte), anche se il cinema di solito preferisce ignorarlo.
Inoltre, Guiraudie riflette il proprio sguardo in quello di Franck, cortese e comprensivo anche verso quella parte di frequentatori della spiaggia che non lo aggrada. Allo stesso modo, il regista ha sempre cura di mostrare considerazione anche nel momento in cui vuole lasciare trapelare le proprie perplessità (e allo scopo non occorre attendere la tirata dell’ispettore di polizia). In più c’è Henri, che non può competere con l’atletico Michel (copia gallica del Tom Selleck dei tempi andati), ma con la sua bonaria saggezza saprebbe smontare anche l’adone più pretenzioso. Ed è ben riuscito il circuito di insoddisfazioni che si crea fra Henri, Franck e Michel, dove il primo si è invaghito a modo suo del secondo (cioè platonicamente, almeno se dobbiamo credere alle sue parole), il secondo si è innamorato del terzo e il terzo cerca solo sesso ma è a suo modo geloso del primo.
Questa è, più o meno, la sostanza della prima mezz'ora de Lo sconosciuto del lago. Quando però sembra destinato a esaurirsi in una rappresentazione di questa oasi di battuage e nel suo teatrino di piaceri soddisfatti e desideri non corrisposti, il film vira sul thriller e arricchisce le sue armonie di nuovi echi. Ma con l’incursione della morte cominciano anche i problemi.
Guiraudie ha dichiarato (leggo nel pressbook):
Riguardo alla comunità gay, dagli slogan ironici e libertari di una volta siamo passati a dimostrare per il diritto di matrimonio. Qualcosa si è perso per strada. I posti per incontrarsi in libertà come la riva del lago nel film sono sempre meno e vengono sostituiti da sex club con ingresso a pagamento. Gli interessi economici hanno avuto il sopravvento sull’amore libero e la società dei consumi include il sesso stesso come oggetto di consumo. Tutto ciò è alienante.
Guiraudie nel ’68 andava all’asilo e negli anni Settanta era ancora un bimbetto, ma quanto si scriveva all’epoca poteva leggerlo anche una volta cresciuto. Se dunque non ci si limita al Bataille di cui il regista si serve nelle interviste per edificare mitologie sul nesso amore-morte, si constata facilmente quanto un simile commento su eros, società dei consumi e comunità gay sia in ritardo di almeno quarant’anni. Basterebbe leggere certo Pasolini, o Gorsen, o almeno Baudrillard (dico almeno perché, si sa, culturalmente i francesi hanno tendenze incestuose e spesso si leggono solo fra di loro). Mi riesce perciò difficile pensare che il film possa più e meglio di altri diventare quella «metafora della società odierna, del desiderio e dell’umanità in generale» auspicata da Guiraudie senza porre limiti alla propria ambizione.
Il punto debole dello Sconosciuto del lago è proprio l’associazione di amore e morte, nella misura in cui vuole essere qualcosa di più di un espediente narrativo. I personaggi non hanno lo spessore necessario a dare credibilità alle ambizioni metaforiche del regista (con l’eccezione parziale di Henri, la cui fine mi sembra tanto sorprendente quanto coerente con il suo bel personaggio). Non sappiamo perché Michel commetta il primo omicidio e quindi è impossibile stabilire un nesso significativo con la sua attività sessuale, e lo stesso si può dire a maggior ragione degli omicidi successivi, motivati semplicemente dalla necessità di salvarsi. Se un legame tra eros e thanatos emerge nel film è semplicemente correlato all’indifferenza: Michel non sembra toccato da quello che ha fatto; Franck non lo è abbastanza da evitare Michel, ma se ciò dipenda dal suo amore, dal suo puro e semplice desiderio sessuale, da mancanza di senso civico o da carenza di empatia rispetto agli sconosciuti che battono in riva al lago non è dato chiarirlo, e in ogni caso non sembra che il suo piacere sia legato, motivato o anche solo maggiorato dal fatto di rischiare la vita portandosi fra i cespugli un potenziale serial killer. È la stessa indifferenza che Franck e Michel mostrano verso il sesso sicuro, questa sì disturbante. Dal canto suo, anche Henri assiste e tace, usando alla fine Michel per portare al culmine non il suo eros, che egli stesso dice essersi spento, ma la sua devastante malinconia.
Sarà forse perché rappresentare il sesso senza censure in un film non pornografico è ancora pratica troppo peregrina per non assorbire una parte eccessiva dell’attenzione dello spettatore, ma proprio l’accento sull’eros interferisce con lo stabilirsi di una tensione sufficiente (con l’eccezione forse dell’omicidio e del finale). Va un po’ alla deriva, in particolare, il tentativo di rendere allarmante il progressivo impaludamento di Franck rispetto tanto a Michel quanto alla giustizia. La colpa è anche della mancanza di un vero affiatamento dello spettatore con i personaggi, il che d’altro canto risulta opportuno sul piano della rappresentazione della sessualità: conosciamo i personaggi come i personaggi si conoscono fra di loro, cioè poco o nulla, perché tra i frequentatori del lago a contare sono i corpi, che Guiraudie esibisce con disinvoltura lungo tutto il film. Se da un lato ne consegue un crescendo più improvviso e traumatico nel finale, dall’altro si vanno a perdere quei filosofemi che erano nelle intenzioni degli autori, ma di cui non si sente la necessità.
Lo sconosciuto del lago funziona infatti bene senza, e anzi funziona proprio nella misura in cui non se ne carichino le in fondo fragili spalle di significati eccessivi e secondi (vizio francese quant’altri mai), perché è proprio nella sua semplicità che riesce più convincente, grazie anche alla suggestione del lavoro di regia, rispettabilissimo tanto sul piano visivo quanto su quello sonoro. La fotografia naturale e il ricorso ai soli rumori ambientali, senza le troppe elaborazioni e ripuliture digitali cui il cinema ormai ossessivamente ricorre, si sposano armoniosamente con la materia rappresentata. Il sentire un moscone ronzare vicino al microfono nell’apice di uno dei rapporti tra Franck e Michel basta da solo a surclassare tanta oleografia gay che alimenta i circuiti festivalieri specializzati. E che Bataille riposi in pace.