recensione diAndrea Meroni
Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti
Spesso contestata dalle femministe – non poi così infondatamente – per la propria misoginia interiorizzata, Lina Wertmüller, quando il suo astro si era ormai un po' appannato, ha ritenuto necessario dissipare la propria reputazione di “odiatrice di donne”, nomea tanto più inquietante in quanto riferita a una delle registe italiane più fortunate in assoluto (nonché prima donna al mondo ad essere candidata all'Oscar per la miglior regia). Per raggiungere questo obiettivo, la Wertmüller ha scelto di realizzare un film che non lasciasse margine d'incertezza sulla sua posizione riguardo al proprio sesso: nel giallo napoletano Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti, tutti gli uomini al di sopra dei dieci anni (salvo “ricchioni” e affini) sono dei “malamente”, mentre praticamente tutte le donne (“zoccole” incluse) sono depositarie della ragione, del senso di responsabilità e – in ultima analisi – del culto della vita.
Ciononostante la regista – anche sceneggiatrice assieme ad Elvio Porta – non rinuncia a malmenare per interposta persona la propria protagonista (in questo caso Angela Molina, presa a ceffoni allo scadere dei primi cinque minuti) e a farla strapazzare – come sempre nei suoi film – da una passione per niente anomala per un ometto tarchiato e irsuto (qui Harvey Keitel), stavolta più antipatico del solito ma pronto a far volare i consueti sganassoni che scandiscono la filmografia della Wertmüller. Oltre a restare affettuosamente legata ai propri auto-cliché, la regista attinge a piene mani anche dal repertorio di figure tipiche della sceneggiata napoletana con condimento poliziesco, raggiungendo il diapason dell'ovvietà quando presenta la mitologica figura del vecchio boss cieco (Francisco Rabal) tutto casa e chiesa e col culto anacronistico dell'onore, il quale – se solo fosse stato per lui – non avrebbe mai permesso che il veleno della droga si insinuasse nelle vene della città di Partenope. È lui ad aver individuato - sin dall'inizio - l'indizio risolutore dell'intrigo del titolo, vale a dire una canzone che si librava nell'aria il giorno dell'omicidio di suo figlio (Tommaso Bianco); ancor più ovviamente, quando il vecchio boss insiste sulla rilevanza di questo motivetto, rimane inascoltato perché «a Napoli cantano tutti quanti»...
Elevando all'ennesima potenza i cliché (enfatizzati dalla piacevole colonna sonora arabeggiante di Tony Esposito), gli autori suggeriscono perlomeno una consapevolezza autoironica che si annida sotto la ridondanza drammatica; ciò fa sì che il mélange, tutto considerato, sia gradevole, anche grazie all'oculata scelta delle facce degli attori, tutti intonati all'ambiente (Paolo Bonacelli è particolarmente divertente come camorrista/satrapo con l'ombretto, idolatrato dalle donne del suo harem come un Rodolfo Valentino nel corpo di Mario Merola). La Wertmüller coglie ogni appiglio per movimentare le inquadrature, e il suo vigoroso senso dello spettacolo – negli scorci stravaganti individuati dal marito Enrico Job – trova miglior applicazione che altrove.
Nella cornucopia di stereotipi, trovano anche spazio i “ricchioni e affini” di cui sopra. Il primo è il portiere della pensione gestita dalla protagonista, interpretato da un caratterista molto benvoluto dalla regista, Mario Scarpetta, il quale è sufficientemente simpatico da rendere perdonabile la banalità del profilo psicologico del suo personaggio e pure la vietissima parrucca bionda che gli viene strappata da un impertinente scugnizzo.
Il secondo – che più che nella categoria dei “ricchioni”, rientra in quella degli “affini” – è lo statuario ballerino Totò detto “Sofia”, incarnato dal coreografo Daniel Ezralow, il cui corpo degno di Policleto viene erotizzato dalla Wertmüller in modo di gran lunga più enfatico rispetto a quello dei molteplici personaggi femminili, tanto che gli viene concesso un lungo assolo di danza in tanga su una terrazza. Per compensare questo insperato elemento di originalità, gli autori gli appioppano un vissuto tragico da manuale: quando era ancora "guagliunciello", aveva tentato di uccidere il perfido fratello della protagonista, reo di aver avviato la poveretta alla prostituzione; per questa ragione lo scalognato Totò era finito in galera, ove gli amici della sua mancata vittima lo avevano stuprato in massa (questo evento viene evocato da un sordido pseudo-flashback); dopodiché, nei restanti anni di condanna, era diventato «pegg' 'e 'na zoccola». Uscito di prigione, si era imbarcato sulla prima nave, finendo guarda caso “all'America”, dove il bruco era diventato farfalla: lì era nata Sofia, il personaggio dell'esotica drag-queen con cui Totò si era arricchito.
Commossa da questo macabro resoconto, la protagonista si attizza e lei e Totò fanno all'amore in terrazza sotto un eloquente volo di gabbiani. Dopo questa “giornata particolare”, Totò torna alla sua vita quotidiana, nella palestra dove insegna danza a un gruppo di femminielli bercianti (ed è già tanto che il suo repentino cambiamento di orientamento sessuale non gli abbia fatto abbandonare le scarpette da ballo in favore dell'oleosa tuta di un metalmeccanico o della lurida canottiera di uno scaricatore di porto). Purtroppo non avrà molto tempo per esplorare i misteri dell'“altra sponda”, perché una coltellata – ricevuta per salvare dalla droga il figlio della protagonista (che bella famiglia...) – porrà fine alla sua breve esistenza.
Com'è dura la vita per gli omosessuali non macchiettistici nel cinema italiano!