In una notte di chiaro di luna

8 novembre 2018

Ben prima dell'esperimento sociale che vedeva ragazzi di diverse parti del mondo aggirarsi in luoghi pubblici con un cartello che diceva «I'm HIV positive, would you hug me?», c'era Rutger Hauer che andava per ristoranti di lusso sussurrando ai camerieri «Ah, mi raccomando, poi disinfettate bicchieri e posate: sono sieropositivo», così da poterne registrare la reazione allarmata in un reportage incentrato sull'emarginazione delle vittime della pandemia. Poi magari, per amor di sensazionalismo, fingeva indignazione di fronte al rifiuto dei camerieri di servirlo, sbatteva un bicchiere in cristallo di Boemia sul tavolo rompendolo e – ops! – tagliandosi, cospargendo di sangue la tovaglia in fiandra, al che una dottoressa dal volto cereo e dall'aria autorevole diceva stentoreamente «Sono un medico. Quel sangue è avvelenato, che nessuno si avvicini!», con un sottofondo musicale costellato di effetti sonori da horror di quart'ordine.

In teoria l'obiettivo primario di un giornalista dovrebbe essere informare, eppure John Knott, il personaggio di Hauer nel delirante In una notte di chiaro di luna di Lina Wertmüller, sembra ancor più confuso di tutti i suoi potenziali lettori, dal momento che si contraddice incredibilmente da una scena all'altra dicendo cose tipo «Non ho l'AIDS, sono solo sieropositivo» e, poco dopo, «Sa, sono sieropositivo, ha presente l'AIDS?». È quindi riscontrabile una certa nefasta similitudine tra il protagonista di questo film, che vorrebbe fare giornalismo responsabile ricorrendo a scene madri come quella appena descritta, e la regista, che pensa di poter fare un film equilibrato e magari pure didattico – nella sua denuncia della strumentalizzazione dell'AIDS – restando vincolata a un immaginario che deve tanto a Morte a Venezia quanto ai rotocalchi più allarmisti.

Tralasciando il fatto che il film si apre con l'omicidio-suicidio di due fidanzati eterosessuali, convinti di essere sieropositivi (non è neanche vero, peraltro, ci verrà detto), la Wertmüller riesce a superare i cento minuti di durata riuscendo a sbalordire qualsiasi spettatore provvisto di un minimo di senso critico, infilando una appresso all'altra delle bestialità tali che non sarebbe eccessivo alzarsi e andarsene ad ogni sequenza, in loop. Elencare le tante ingenuità e le vere e proprie scelleratezze è impossibile per motivi di spazio, ma – per rendere l'idea – può bastare una top 5:

  1. il ruolo di “cattivo” è assegnato a un playboy veneziano, tale Zaccaria (George Eastman), che si professa “promiscuo”, “ambiguo”, anzi, “trisessuale” (?) e ammette – con un lampo di follia nello sguardo – di “essersela cercata” («In amore ci vuole sempre un tocco di fatalismo»); è lui che fa intuire al protagonista John di essere stato a sua volta contagiato, richiamandogli alla memoria una voluttuosa danzatrice con cui entrambi erano stati a letto, la quale sarebbe poi morta consumata dal sarcoma di Kaposi (Zaccaria scandisce con fare iniziatico queste tre parole); a far franare definitivamente nel ridicolo questa situazione già abbastanza paradossale è il fatto che la Wertmüller, per completezza, ci mostri la defunta in video mentre balla agghindata con drappi funerei come una femme-fatale uscita dal più risaputo dei romanzi d'appendice scapigliati, quasi a rimarcare la sua natura di untrice, di vedova nera. Inserita nel contesto di un film espressionista la scelta sarebbe plausibile, in un melodramma scadente degli anni Cinquanta sarebbe un peccato veniale, ma in un film pretenzioso come questo provoca invece un violento travaso di bile;

  2. sempre per il proprio reportage, John si reca in incognito in una fabbrica. Qui informa i capireparto della propria sieropositività e costoro convocano in riunione gli operai per avvisarli della presenza di un portatore sano di HIV. Gli operai dapprima si infervorano e vorrebbero “darle all'untore”, ma John li ammutolisce raccontando in modo scabro ma commovente una versione fittizia di come sarebbe stato infettato: dice di aver lavorato presso una piattaforma petrolifera e – spinto dalla solitudine – sarebbe finito tra le braccia di una poco raccomandabile prostituta che lo avrebbe contagiato. Gli operai si immedesimano e votano per non cacciarlo dalla fabbrica, al che si leva la voce adirata di un omosessuale che sbraita che – se John fosse stato gay – non avrebbe riscosso la stessa solidarietà, anzi, sarebbe stato cacciato come stava per succedere a lui. Questa a prima vista potrebbe sembrare un'interessante puntualizzazione, però a pensarci due volte è un autogol di non poco conto. L'omosessuale infuriato evidentemente non è sieropositivo, altrimenti vorrebbe dire che la fabbrica ha già affrontato la stessa situazione, il che non è quello che la Wertmüller ci ha detto: se - come racconta - ha rischiato di essere cacciato dalla fabbrica è stato piuttosto per aver ammesso la propria omosessualità. Orbene, è sicuramente vero che, se un ipotetico sieropositivo presente in fabbrica fosse stato dichiaratamente gay, sarebbe stato a maggior ragione cacciato... però, sentendosi chiamato in causa e facendo questa piazzata benché nessuno avesse fatto allusioni agli omosessuali, l'operaio berciante non fa altro che rimarcare l'equazione gay=AIDS, laddove tra i pochissimi pregi di questo film c'era proprio quello di non crogiolarsi più del necessario in questo stereotipo;

  3. non appena scopre la propria condizione, John comincia a intabarrarsi come l'uomo invisibile con cappottoni neri firmati Versace, comincia a bighellonare per cimiteri e scrive frasi che Humphrey Bogart si sarebbe vergognato a pronunciare anche dopo un triplo whisky, tipo «Sono tornato a Manhattan, dove la solitudine non è un'eccezione ma la normalità»; tutto ciò per sottolineare la drammaticità della sua eroica scelta: diventare un eremita, abbandonando la fidanzata (Nastassja Kinski) e la figlia per evitare di esporle al contagio. La decisione potrebbe aver senso se a prenderla fosse qualcuno che non sa niente dell'HIV, ma quella sconsigliata della Wertmüller la attribuisce a un giornalista che fino a dieci minuti prima stava facendo un'inchiesta “toccante e umana” da Premio Pulitzer sull'argomento e che pure anche consultato un luminare della scienza (un depresso Peter O' Toole, che appare sullo schermo scortato da una bottiglia di Porto, evidentemente prevista per contratto) il quale gli aveva espressamente sconsigliato di abbandonare i suoi cari. La pachidermica contraddizione tra quello che John dovrebbe sapere sulla sieropositività e il suo effettivo comportamento è la tara che più di tutte mina il film;

  4. durante le sue peregrinazioni catacombali, John incontra una vecchia amica (Lorraine Bracco) di cui era innamorato; costei gli ha sempre preferito un omosessuale scopereccio ed è riuscita a sposarselo, pur venendo nei primi tempi cornificata senza ritegno con marinai e scaricatori di porto. Ora però il marito è cambiato: la paura del contagio lo ho trasformato in un marito e padre esemplare, e infatti la donna – inconsapevole di parlare di corda in casa dell'impiccato – sbotta, in un attacco di reaganismo, «Sono felice che sia arrivato questo AIDS, perché lo ha riportato a casa». John – e con lui lo spettatore – impallidisce: era innamorato di una fondamentalista e non lo sapeva. Può anche essere che questa sia la battuta più verosimile del film (John si affretta a correggere il tiro dicendo che è da folli pretendere che l'amore sia indotto dalla paura), ma lascia una fastidiosa sensazione di amaro in bocca perché pronunciata dall'amica di John che era stata presentata in chiave molto positiva; quando più tardi un'ecologista esaltata appare in TV – con lo sguardo da pazza fisso in macchina – e dice sostanzialmente la stessa cosa in nome della salvaguardia del Pianeta Terra, l'effetto è del tutto diverso: è matta, quindi può dire quello che le pare;

  5. posto che in nessuna parte del film Hauer ha dato prova di una particolare gelosia per la fidanzata e che l'accento è posto continuamente sulla paranoia del contagio, unica motivazione dell'abbandono, il colmo dei colmi è raggiunto nuovamente a causa della lampante incompatibilità del comportamento demenziale di John con la sua presunta conoscenza del virus (abbandonato il giornalismo, John aveva ricattato un'industriale, interpretata da Faye Dunaway, perché convertisse la sua attività nella produzione di profilattici!). Quando John viene a sapere che il playboy veneziano Zaccaria ha delle mire sulla sua fidanzata (che, a questo punto del film, ha lasciato da cinque anni), si precipita da lui per massacrarlo di botte, ripetendo ossessivamente «L'hai baciata? L'hai carezzata con le tue mani schifose?», aggiungendo solo in seconda battuta «Ci sei andato a letto?», come se “baciare” e “carezzare” fossero più gravi dell'unico comportamento a rischio di cui Zaccaria (che pure ha affermato di usare sempre tutte le precauzioni del caso) potrebbe essere imputabile. In barba a ogni logica, John è convinto che invece Zaccaria abbia concepito il piano diabolico di contagiare la sua fidanzata per vendicarsi del fatto che lo stesso John avesse sedotto la danzatrice defunta che a lui piaceva tanto... spiegazione posticcia altamente improbabile perché Zaccaria non aveva fatto un plissé parlando della tresca dell'ex-amico (tra sciupafemmine ci si perdona facilmente, del resto). Accecato dalla rabbia, John prima minaccia Zaccaria con la pistola e poi inscena un delirante duello all'arma bianca (con dei cocci di vasi di Murano, giusto per rimarcare il suo disprezzo per il denaro) in cui la suite veneziana di Zaccaria viene completamente imbrattata di sangue. Purtroppo lo spettatore allibito non ha anche la soddisfazione di vedere tornare l'autorevole dottoressa dell'inizio giusto in tempo per urlare di nuovo «Quel sangue è avvelenato, che nessuno si avvicini!», il che innescherebbe perlomeno una risata liberatoria.

A mo' di bonus tra le assurdità di questo film – molto brutto anche esteticamente, per quanto ogni scena si svolga in un punto diverso del globo, e recitato in modo isterico come esige il canone wertmülleriano – vale la pena di citare il discorsetto semi-conclusivo del malcapitato dottor Peter O' Toole: «Ai sieropositivi comunque consiglio di limitare la loro attività sessuale, e di considerare ciò non come una punizione, ma come una delle tante varianti del vecchio gioco dell'erotismo»...

Mi scusi, vuol ripetere?


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