La sensazione acuta dello scorrere del tempo si riceve spesso nel rendersi conto che persone che siamo abituati a pensare nella loro giovinezza più bacchica e faunesca ormai sarebbero tranquilli nonnini o compassati signori di mezza età; tanto per dire, di recente m’è capitato di vedere qui a Milano un tale che per un attimo mi fece esclamare tra me “Ma guarda qua Diego D.!”, che era stato mio commilitone nel 1993/94: ma bastò un secondo perché mi sovvenisse che Diego D. non era più un ventenne come quel tizio, ma un uomo fra i quaranta e i cinquant’anni. Ecco, a chi verrebbe in mente che Robert Mapplethorpe, nel momento in cui sto scrivendo, sarebbe in procinto di compiere settantadue anni? E chissà come sarebbe un Mapplethorpe settantenne: io non me lo riesco a immaginare; d’altronde, l’autore di questo libro, che per un certo periodo ebbe una relazione con lui, è ormai vicinissimo agli ottanta. Non so, a dir il vero, come sia Jack Fritscher da vecchio: al tempo in cui viveva vicino a Mapplethorpe mostrava già più anni di quelli che aveva, come spesso accadeva in quei tempi a corifei della scena leathercome lui, che tra barbacce, baffoni e aria ingrugnata non davano certo l’idea d’eterni adolescenti circonfusi da un’aura gaya, vaporosa e lieve; ma il suo destino è stato fausto: di quell’epoca d’eccessi dionisiaci è uno dei non moltissimi sopravvissuti, e per giunta provvisto di strumenti culturali adatti a rievocarla con cognizione diretta e in modo non puramente nostalgico ed emotivo; egli ha infatti condiviso una carriera accademica di tutto rispetto, dopo studî teologici, filosofici e artistici (voleva farsi prete, e prima di lasciare il seminario aveva anche ricevuto gli ordini minori), con una vita di attivista gay e leather, come attesta il lungo periodo in cui ha diretto la storica rivista Drummer. Le sue qualità di testimone diretto e partecipe, ma capace d’una lettura storica dei fenomeni vissuti di persona, potenzialmente parrebbero quella che si suol dire un’accoppiata vincente: ma purtroppo questo libro per diversi aspetti si rivela una delusione, anche perché di solito le delusioni divengono più cocenti se le pretese erano più alte. I motivi per cui l’opera promette assai più di ciò che mantenga sono, a mio avviso, principalmente due: la natura miscellanea e una certa aridità espositiva. Il primo è il più importante. Fritscher si limita qui a raccogliere e giustapporre una serie di pezzi di varia natura scritti in momenti diversi (ma per lo più negli anni Novanta), in occasioni differenti e su svariate riviste, dedicati all’arte di Robert Mapplethorpe o al suo ricordo, e tutto induce a pensare che li abbia messi assieme e ripubblicati tali e quali, dato che pullulano di ripetizioni: è chiaro che non reca molto piacere al lettore trovarsi la medesima notizia od osservazione critica riportata ogni dieci pagine; ma se le osservazioni e notizie reiterate sono numerose, lo scarso piacere diventa perfino irritazione. Inoltre l’autore dà il sospetto d’una posizione critica ondivaga sul rilievo e sul valore dell’artista di cui si occupa: il che, in sé, non è strano, perché a distanza di tempo la visione d’un’opera o d’un artista in generale può variare anche di molto; ma senza dubbio non reca piacere veder elogiato Mapplethorpe per la sua novità dirompente in un passo, e sentirlo trattare con qualche condiscendenza o perfino con malcelata irritazione o con evidente fastidio in altre pagine, probabilmente nate in momenti di malumore. Qui davvero si avverte fortemente l’assenza d’un lavoro di revisione, riscrittura e rifusione dei testi: attività che oltretutto avrebbero comportato, data la maggior distanza prospettica, una visione più serena e sfumata di questioni che l’urgenza del momento induceva forse a guardare in maniera deformata. Fritscher insiste in modo quasi ossessivo sull’educazione cattolica condivisa da lui e Mapplethorpe, ma temo che in ciò egli sopravvaluti l’incidenza del cattolicesimo sull’estetica del grande fotografo di Long Island. Ci sarebbe stato qui, piuttosto, un lavoro iconografico notevole da portare avanti, rintracciando nelle immagini S/M (ma anche in altre, come quelle dei fiori) reali ed effettivi riecheggiamenti di precise opere d’arte: Mapplethorpe era scultore di formazione, e sebbene non avesse alle spalle un’istruzione profonda ed ampia come Fritscher, nemmeno doveva essere digiuno di storia dell’arte. Può darsi tuttavia che Fritscher non avesse l’idonea preparazione iconografica occorrente a questo lavoro: in effetti, l’arte allusiva di Mapplethorpe, nella misura in cui davvero attinga da un’iconografica cattolica colta o popolare, senza dubbio rimane più sfumata e sotterranea, per esempio, di quella, viceversa esibita, di Pierre & Gilles. Dove mi sembra che l’opera di Fritscher riacquisti un interesse culturale degno di nota è, piuttosto, nei numerosi passi dove l’autore si scaglia, talvolta con espressioni gustosamente pittoresche, contro quello che denomina mainstram gay, secondo lui rappresentato, fra l’altro, da riviste come The Advocate, di cui rifiuta l’approccio politicamente corretto in nome d’un atteggiamento apertamente maschilista, rivoluzionario e rude, riassumibile appunto nell’icona del maschio alla Tom of Finland, in pelle nera, palestrato e “cattivo”. Si tratta d’un orientamento che ne lustri scorsi ebbe la sua risonanza e dignità anche da un punto di vista culturale, mentre ora sembra aver più o meno esaurito la sua carica teorica, restando vivo, più che altro, come fatto di stile o di culto feticistico. Se l’intero libro dà l’impressione d’una raccolta di pezzi non rimaneggiati, vi ho rinvenuto tuttavia una citazione che a prima vista sembra frutto, al contrario, d’una manipolazione successiva. Dato che questa non è una recensione canonica ma una serie di pensieri personali buttati là, mi si permetterà una digressione alquanto sproporzionata. Nel 1982 un fotografo californiano di nome Jim Wigler fu bersaglio d’una virulenta campagna polemica da parte non degli omofobi, ma proprio dei suddetti mainstream gay, che lo incolparono di creare immagini leather e sadomaso a propaganda dell’irresponsabilità sessuale e della conseguente diffusione dell’AIDS, peraltro ancora agl’inizî e non ancora chiamato con quest’acronimo; Fritscher, incoraggiato da Mapplethorpe, che si vedeva indirettamente chiamato in causa dato che creava anche immagini simili a quelle di Wigler, scrisse un caustico articolo in difesa di quest’ultimo, articolo qui riportato per intero; per dare un’idea del suo stile, ancora pieno di veemenza da anni Settanta, basta citarne la frase d’apertura: “Basta con le stronzate da checche sull’arte del fotografo Jim Wigler e del suo modello e partner Gunnar Robinson!”. Ebbene, all’interno dello scritto, a p. 279 del testo italiano, troviamo la frase “Non ci piace vivere sul ciglio di un’avanguardistica verità se non possiamo ritirarci, come giovani inesperti, in un romanticismo pieno di sentimento. Facciamo finta di essere Butch e Sundance, ma in realtà siamo più come Frankie e Johnny”. Ora, la nota del traduttore spiega che i primi due nomi si riferiscono a Butch Cassidy, pellicola del 1969, e va bene, e gli altri due a Paura d’amare, del 1991. Ma l’articolo fu scritto prima del 1991! E anche l’opera teatrale da cui fu tratto il film è posteriore al 1982. Qui però sospetto che il testo di Fritscher non sia stato riscritto, ma che a sbagliarsi sia stato il traduttore, cagione la solita dannata fretta di mandare in istampa il libro: almeno a quanto leggo su Wikipedia (ché d’altronde non sono un esperto di teatro americano), il dramma Frankie and Johnny di Terrance McNally, la cui prima risale al 1987, fu ispirato da una famosa canzone popolare dei primi del Novecento col medesimo titolo, che aveva peraltro già suggerito il soggetto per vecchie pellicole cinematografiche, una delle quali perfino interpretata da Elvis Presley. Era insomma un’allusione a qualcosa d’abbondamentemente divulgato e conosciuto dal pubblico ben prima del film con Al Pacino e Michelle Pfeiffer, come potrebbe essere, da noi, una citazione di Funiculì funiculà o di Sciur parun. Sono, d’altronde, infortunî che capitano quando si ha che fare con la “cultura popolare” d’un paese in cui non si è nati e cresciuti; e perfino con quella del proprio, se l’intervallo temporale si fa notevole. Non si capisce, d’altronde, perché Fritscher avrebbe dovuto inserire proprio questa frase o modificarla mentre tutto fa pensare che il resto sia rimasto tale e quale ad allora.