The Chiffon Trenches

6 settembre 2020

Benché conscio che la fortuna suol venire in soccorso agli audaci, letto quest'ottimo libro mi sono sentito più sicuro limitando il mio ardimento al commentare l'opera d'un mostro sacro della moda contemporanea come Andre Leon Talley. D'altra parte, il non lavorare nel mondo della moda mi esime dall'esprimermi da esperto: e per giunta, non avendo la cultura enciclopedica dell'autore, vero archivio vivente di collezioni e misesdelle donne più eleganti della seconda metà del Novecento, non ho nemmeno i mezzi per discutere le sue valutazioni. E allora, oh bella, mi obietteranno i miei tre pazienti lettori, perché scriverne? Ma perché l'autobiografia di Talley mi è piaciuta moltissimo, e mi ha reso Talley molto simpatico; sicché perlomeno mi piacerebbe guadagnargli qualche lettore anche qui da noi, ove pure, se non erro, il libro non è stato ancora tradotto. Al vecchio Veronelli piaceva fare, quando s'imbatteva in un ristorante che lo incantava, una battuta col ricordare l'ordinanza apposta per ordine di Luigi XV fuori dal cimitero di San Medardo, luogo di supposti eventi taumaturgici frequentato dai giansenisti: "De par le Roy, défense à Dieu de faire miracles en ce lieu": Tizio invece - seguitava Veronelli - i miracoli li fa; e Talley - dico io - forse non ne fa, ma la sua vita è certamente un miracolo, come riconosce più volte nel resoconto della propria vita egli stesso: partito dalla Carolina del Nord ancor aduggiata dalla segregazione razziale, giunto nell'ambiente della moda quasi per caso mentre pensava di dover diventare un francesista, entrato per puro azzardo in contatto con Diana Vreeland, diventato amico di Karl Lagerfeld in modo altrettanto accidentale, nel giro di qualche anno egli divenne, unico afroamericano a quei tempi, un collaboratore di punta di Vogue, e per più lustri collaboratore particolarmente stretto di Anna Wintour: e anche un uomo di stile: ah quelle pagliette, ah quelle tuniche regali!...

Di quest'ascesa sociale e dell'aver potuto vivere in mezzo all'eleganza e alla bellezza Talley, ritiratosi ormai a riposo e varcata la settantina, è grato e felice, come rammenta più volte: gratitudine che assume anche caldi accenti religiosi, perché il Nostro è sempre rimasto fedele al cristianesimo battista della sua infanzia, e non manca di ricordare come proprio la fede gli abbia dato equilibrio, costanza e prudenza nell'attraversare quelle che chiama le chiffon trenches della moda. Se gli vogliamo dar retta, è un ballo - come avrebbe detto il cardinal di Retz - per ballare il quale non bisogna temere qualche colpo di pugnale o qualche coppa di veleno: e veleni e pugnalate metaforici (ma si tratta di metafore che fanno molto male) nella vita egli ne ha subiti a ripetizione, anche da parte di chi credeva molto amico, anche se a infliggergli la coltellata forse più machiavellica e chirurgica fu Pierre Bergé, che suo amico propriamente non era. Si avverte anche, tangibile, il rimpianto per aver sacrificato in parte gli affetti familiari ad un lavoro amato ma spietato nell'esclusività del suo abbraccio: l'adorata nonna che lo aveva cresciuto con semplicità e amore nella sua cittadina del Sud, la madre con cui, viceversa, il rapporto era sempre stato teso e difficile; e, con ritegno e garbo, Talley rievoca anche il trauma d'un abuso sessuale subito nell'adolescenza, che gli ha sempre impedito di vivere con pienezza la sua omosessualità e l'amore. Forse però l'amarezza più forte, quella che screzia soprattutto gli ultimi capitoli d'una sottile ma indubitabile malinconia è la rapida obsolescenza che nell'attuale moda, sempre più dominata da un criterio affaristico, travolge non solo i vestiti, ma perfino le persone che avevano ad essa consacrato una vita intera, messe da parte, dimenticate, magari sostituite da effimeri divi della rete: il capitolo sulle nozze di Marc Jacobs, scritto con una prosa pacata e quasi distratta, è tutto attraversato da lame di vento gelido, e fra lo scintillio del lusso più corrusco si allungano le ombre del disinganno e della solitudine.

Alla fine, le due figure più ricorrenti in queste memorie, Karl Lagerfeld e Anna Wintour - frequentati peraltro in modo del tutto differente: Lagerfeld era stato amico e mentore per un Talley ancora giovane e inesperto - brillano remoti a tratti come icone di perfezione, a tratti come fantasmi che mettono a disagio. E in effetti l'autore, grande cultore della seta, è serico anche nella reminiscenza: lucida e luminosa, ma cangiante, sfuggente, ingannevole; di tante persone care rievoca la gentilezza, i favori, per poi svelarne un istante, con un fruscio e un colpo d'ala, certe miserie che fanno rimanere a bocca aperta: non è che le voglia sminuire, ma, nella calma olimpica dell'uomo che ha visto e sperimentato tante cose della vita, le ritrae così, belle e meschine come assieme belli e meschini, ma senza fama, passiamo in tanti sulla scena del mondo. Dopotutto, invecchiare senza rancori ma con una visione acuta del passato è un dono magnifico, e Talley mostra di esserne contento. La cosa però di cui gioisce di più è l'aver vissuto per la moda e in mezzo alla moda. Il suo senso dell'outfitdegno di memoria, dell'armonia di tonalità, di materiali e di forme, della grammatica e della sintassi dell'abbigliamento sono palpabili e affascinanti: di fronte a una misememorabile sembrano eclissarsi le ingiustizie, sembrano tramontare le amarezze: resta solo la bellezza, catturata da uno sguardo e affettuosamente mantenuta viva in un ricordo. E una vita dedicata all'eleganza e alla bellezza è senza dubbio una vita bene spesa.

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