Antologia palatina

29 luglio 2013

L’Antologia palatina raccoglie, come tutti sanno almeno da memorie scolastiche, versi scritti in un lasso di tempo molto lungo, tra il 500 a.C. e il 500 d.C., e stratificatisi in un periodo di tempo altrettanto lungo, tra il I secolo a.C. e il 1300. Il testo di riferimento rimane il codice Palatinus Graecus 23 (da cui il nome dell’antologia), vergato probabilmente a cavallo fra Basso e Alto Medioevo. Dei suoi quindici libri, il quinto e il dodicesimo sono tra i più noti perché raccolgono gli epigrammi definiti solitamente erotici, rispettivamente quelli dedicati all’amore eterosessuale e a quello omosessuale, con qualche involontaria mescolanza dovuta a errori di trasmissione, cioè a incomprensione dei copisti. Oggetto dei versi è l’intero spettro delle manifestazioni amorose, si tratti di semplice contemplazione della bellezza, di rovelli sentimentali o di puro desiderio carnale. Siccome poi è un dato universale che la felicità si presta meno dell’infelicità all’espressione poetica, è facile immaginare che perlopiù si tratta di poesie che esprimono aneliti insoddisfatti, piaceri non raggiunti, dichiarazioni d’amore inevase, delusioni sentimentali, insomma pene d’amore di ogni genere, o quando va bene contemplazioni a distanza delle bellezze eteree dell’efebo di turno. Gli accenti non sono tuttavia sempre dolenti, anzi spesso prevale una certa ironia più o meno salace.

L’edizione Rizzoli, che è l’unica che mi risulti al momento circolante in Italia di questi due libri, fu curata da Guido Paduano ormai un quarto di secolo fa. Paduano introduce, traduce e annota a servizio del lettore non specialista, come si conviene alla collana. Cioè traduce badando più alla precisione del senso che alla forma; annota con estrema parsimonia, lasciando fatalmente molte questioni inevase e molti epigrammi a dialogare senza mediazione con il lettore; e introduce non con una minuta analisi critico-letteraria quanto piuttosto indagando una generale fenomenologia della vita amorosa, il che gli permette di mischiare gli epigrammi dei due libri. Scelte che mi paiono complessivamente opportune, anche se mi riservo, pur da non specialista, di non dirmi persuaso da alcune annotazioni, ad esempio quella secondo la quale i poeti greci sentirebbero la necessità di giustificare la scelta omosessuale quando la confrontano a quella eterosessuale in epigrammi che mi pare si prestino anche a letture diverse. Scelte, nondimeno, che ho l’impressione derivino in parte da scarso amore per la materia introdotta e curata, ed è lo studioso stesso a non farne mistero laddove sembra voler togliere al lettore qualsiasi desiderio di inoltrarsi nel libro oltre le pagine introduttive, anticipando una «monotonia implacabile» degli epigrammi, dovuti ai «limiti assai modesti» dei loro autori. Non viene salvato nemmeno il piacere della ripetizione, valorizzato da decenni di considerazioni sull’intertestualità e di picconate (non necessariamente sempre opportune) vibrate ai danni del diaframma che storicamente ha separato arte alta e arte bassa. Ne deriva infatti, secondo Paduano, solo «storia stanca e fragile». L’onestà del giudizio è certo in sé stimabile, ma come strategia introduttiva forse è un poco discutibile.

Ora, che gli epigrammi dell’Antologia palatina rispondano a convenzioni poetiche molto rigide è certo fuori discussione. Il loro carattere formulare è evidente (ed è parzialmente accentuato dall’ordinamento interno all’antologia), al punto che nemmeno l’esperto – ci rassicura Paudano – sarebbe in grado di distinguere cronologicamente i componimenti qualora non fosse indicato l’autore, per quanto si tratti di poesie scritte a distanza di secoli e in contesti quindi molto diversi fra di loro. Il che produce un effetto singolare ma a suo modo già affascinante: è un po’ come se senza soluzione di continuità si fossero composte sino ancora ai tempi odierni poesie d’amore cortese. Riesce difficile immaginare di avere in mano una poesia e di non poter capire se sia di Penna o del Burchiello, giusto per rimanere nel tema che ci interessa.

Concesso allora che se genio sopraffino e personalità di rottura si cercano, si potrà guardare con maggior soddisfazione altrove (e il lettore ha ovviamente solo l’imbarazzo della scelta), si deve concedere anche che se pure stanca e fragile fosse in sé la ripetizione (e personalmente non lo credo), nella stanchezza possono affiorare languori umani troppo umani, mentre nella fragilità si può scorgere delicatezza d’animo e d’immaginazione. E se diverte, già nel primo epigramma, la liquidazione delle Muse («se amo i ragazzi e sto insieme ai ragazzi / che avranno mai a che fare le Muse con questo?», scrive Stratone), uno squarcio d’improvvisa quotidianità può meglio essere apprezzato nel mezzo di una serie di variazioni convenzionali: ne è un esempio il medesimo Stratone folgorato da un giovane fiorista del II secolo d.C. che, importunato, teme di essere scorto dal padre. Analogamente, un colpo d’ala può risultare più efficace quando produce scarto rispetto alla ripetizione del medesimo modulo. È il caso di Meleagro (più o meno coevo di Stratone) impaurito da una semplice mosca perché teme che Zeus, sotto mentite spoglie, si appresti a ripetere ai danni del suo amato Topino il ratto di Ganimede, uno dei miti di riferimento di molti di questi componimenti.

O magari a riuscire meglio è semplicemente una perfidia, come in alcuni dei molti epigrammi rivolti ai bei giovani sdegnosi (quelli, si direbbe oggi, che se la tirano, forti di una giovinezza che non sanno ancora immaginare quanto presto sfiorirà). «E tu concedimi / un bacio sereno: vedrai, verrà il momento / che anche tu ad altri chiederai questa grazia» (ancora Stratone), ovvero: «Ma verrà il tempo a fare giustizia di questo: tutto peloso / dirà “buon giorno” a chi non risponde neppure» (Diocle un secolo prima). O ancora, l'affondo può dirsi più riuscito se si avvale di una volgarità messa a segno con più soddisfazione di tante altre: «ricorda che anche sul culo fiorisce la Nemesi», scrive Meleagro, sempre in un epigramma inteso a sciogliere con minacce pilifere un ragazzo restio.

Oggi probabilmente occorrerebbe sostituire peli con rughe per cogliere il senso della minaccia aggiornandola ai correnti canoni estetici. Se poi qualcuno ancora, per ignoranza o per opportunismo, confondesse pedofilia e pederastia, si legga l’epigramma 228 di Stratone per essere edotto. In ogni caso gli amanti degli orsi avranno compreso che buona parte della raccolta non fa per loro, poiché nulla vi è più aborrito della peluria e della barba, che segnano il confine tra la giovinezza e la maturità, tra la bellezza e la decadenza, tra la desiderabilità e l’indifferenza, persino fra l’umano e ciò che sta oltre, come scrive un anonimo con gioco blasfemo (poiché il pelo sostituisce gli dei in un’espressione tradizionale): «non mirate al di là dell’umano: ci sono i peli».

Il pelo segna anche il discrimine oltre il quale il desiderio trascende un rapporto istituzionalizzato per divenire qualcosa di diverso, di più complesso, di più sfuggente rispetto alle convenzioni poetiche oltreché sociali: «Se qualcuno li ama più vecchi, non è per il suo piacere / quello che cerca è già “a lui così disse in risposta”», commenta Stratone alludendo a un rapporto in cui i ruoli convenzionali di erastes ed eromenos non reggono perché il giovane non è più tale e quindi non si limita più a concedersi, rispondendo alla pari. Ma anche il ragazzo può riservare amare sorprese: non c’è paideia che tenga se le nuove generazioni, come lamenta ancora Stratone, hanno imparato a chiedere soldi in cambio delle loro grazie («Mi tendi la mano aperta: sono finito; / vuoi dunque un compenso, e questo dove l’hai appreso?»).

Uno dei giovani allievi di The History Boys di Bennet protesta con il suo professore: «I dont’ see how we can understand it. Most of the stuff poetry’s about hasn’t happened to us yet». Ecco, per apprezzare questi epigrammi, anche nella loro levità formulare, conta forse più aver vissuto certe esperienze che non aver ancora il greco dei nostri studi giovanili fresco in mente. Si tratta in fondo di sentire le radici della nostra civiltà laddove è ormai retorica dire (giustamente, ma senza mai trarne conseguenze) che esse affondano, più che di godere di finezze lessicali, retoriche e metriche.

È ad esempio folgorante la rivendicazione di Callimaco di un amore che non necessita di consensi: se nessuno lo condividesse, «sarei contento di essere il solo a conoscere le cose belle», scriveva circa 300 anni prima di Cristo. È ancora più facile rispecchiarsi man mano che ci si inoltra nel libro, laddove si approfondiscono la gelosia, l’abbandono, il tradimento, le pene d’amore prima, durante e dopo la relazione, se di relazione si può parlare dal momento che nulla è più mercuriale di un pais. Come dice il folle di Re Lear: «He’s mad that trusts in the tameness of a wolf, a horse’s health, a boy’s love or a whore’s oath» (cioè è da folli credere nell’amore di un ragazzo non meno che nella mansuetudine del lupo, nella salute del cavallo – che il senso comune voleva cagionevole – o nel giuramento di una puttana, e la questione, beninteso, non è di gender ma d’età).

Addentrandosi nella raccolta ci si imbatte anche in qualche (sparuto) epigramma salace. Il mio preferito è ancora di Stratone: «Ieri facendo il bagno, Diocle mostrava / una lucertola sorgente dall’acqua come Afrodite. / Se qualcuno l’avesse mostrata a Paride quella volta sull’Ida / giudicava le tre dee senza dubbio di molto inferiori». Come a dire che la storia (almeno quella del mito) sarebbe stata completamente diversa: le conseguenze di questi quattro versi sono virtualmente interminabili, solo che si assecondi il gioco dell’immaginazione che possono innescare. Ma Stratone può anche accontentarsi di un indovinello da trivio: «In tutto sono in tre su di un letto, eppure due attivi / e due passivi; sembra che racconti un miracolo / eppure è vero», e la soluzione del mistero la lascio all’immaginazione del lettore.

Al di là dei documentabili legami intertestuali, ognuno è poi libero di istituire i propri, giacché l’intertestualità è anche una questione di biblioteca privata e di individuali esperienze di lettura (non meno che di vita). A me per esempio l’epigramma 188 («Se ti faccio torto baciandoti, se pensi che sia un violenza / puniscimi con la stessa violenza: anche tu dammi un bacio»), ancora di Stratone e ancora consolatorio rispetto a un bel ragazzo sdegnoso, ha fatto tornare alla mente il carme 99 in cui Catullo rievoca non senza ironia come per un bacetto similmente rubato sia stato costretto a chiedere perdono per oltre un’ora al bel Giovenzio, disgustato dall’affronto. La statura divergente non toglie che la divertita arguzia dell’epigramma ha pur sempre un suo piacere da offrire. Senza contare che qualcosa di tutt’altro che irrilevante accomuna i due testi per il lettore odierno: il fatto che a scuola tutto si insegna di Lesbia (nonostante il nome equivoco) e nulla di Giovenzio o di Gellio, e dell’Antologia palatina non è certo il dodicesimo libro a dominare i programmi ministeriali e le antologie.

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