recensione di Mauro Giori
Ugly Betty
L'evoluzione della rappresentazione di personaggi omosessuali nelle serie televisive degli ultimi anni è un fenomeno anzitutto quantitativo (ormai quasi nessuna serie se ne fa mancare almeno uno). Ma il miglioramento si registra anche sul piano della qualità e può essere rilevato facilmente di fronte ai personaggi degli adolescenti, da sempre i più problematici da tratteggiare, i più facili a suscitare scandalo.
Non sorprenderà nessuno che l'omosessualità non costituisca in alcun modo un problema in Ugly Betty (brillante versione americana di una fortunata soap colombiana, Yo soy Betty, la fea). Anzitutto perché è una serie politicamente ultra-corretta (ma in modo estremamente intelligente), e quindi particolarmente attenta al rispetto e alla promozione delle differenze (Betty appartiene a una famiglia di immigrati). Che sia anche apertamente gay-friendly è dunque implicito. Tanto è vero che nel 2008 i protagonisti "latini" della serie avevano recitato in uno spot contro la "Proposition 8".
In secondo luogo, perché Ugly Betty è ambientata - con un occhio critico e uno compiacente - nel rutilante mondo dell'alta moda, dove cliché di vecchia data insegnano che l'omosessualità è di casa. E i cliché hanno sempre un fondo di verità. Ma la sfida è in fondo proprio questa: rappresentare l'omosessualità dove ce la si aspetta, in forme inattese, e giocare sui luoghi comuni per ricavarne qualcosa di diverso e sventarne l'intento repressivo. Come quando Mark, l'effeminato assistente della perfida "Will-hell-mina" Slater, per giustificare la sua fuga dagli impegni di una relazione stabile, dice che non può farlo sapere sul luogo di lavoro perché, si sa, il mondo della moda è molto omofobo. Proprio nel caso di Mark, lo stereotipo è scongiurato grazie a un consistente lavoro sulla psicologia del personaggio, che di stagione in stagione rivela aspetti nuovi che lo arricchiscono senza mai snaturarlo, permettendogli tra l'altro di passare attraverso due relazioni, nate entrambe all'interno dell'ambiente della moda, ma coinvolgenti personaggi che non sono certo rappresentativi del suo aspetto glamour: un affettuoso orsetto e un impiegato alla sua prima esperienza.
Un mondo al contrario, in cui tutto fila liscio, dunque? Non esattamente. Ed è il personaggio adolescente della serie, il nipote di Betty, ad assicurare quel po' di dramma che è permesso nei confini di una serie comica. Justin affronta infatti con qualche calcolata difficoltà la sua evoluzione, parallela a quella di Mark: effeminato e camp come lui, oltreché appassionato di musical, sembra anch'egli la replica di uno stereotipo riconosciuto, ma proprio questi suoi caratteri risaputi fondano la novità del personaggio, per il semplice fatto che è uno studente di liceo. Farsi accettare con questi tratti nel mondo della moda è una cosa, farlo a scuola un'altra. Justin (anche con l'aiuto di Mark) se la caverà egregiamente, superando gradualmente il disprezzo dei compagni, la tentazione della rimozione e le involontarie pressioni di una famiglia che rischia di essere fin troppo supportiva. Senza per altro rinunciare a nessuno dei suoi tratti convenzionali e approdando felice alla sua prima relazione, ancora in contemporanea con Mark. Perché essere effeminati, amare il musical e apprezzare la moda (che non significa solo seguirla) non sono solo tre cose lecite (persino tutte e tre insieme), ma in un mondo invaso da cloni prodotti in serie in palestra rischiano persino di formare una combinazione eversiva.