recensione diMauro Giori
Tenebre
Dopo un paio di incursioni nell'horror, con Suspiria (1977) e Inferno (1980), Argento torna con Tenebre a un thriller vicino alla sua prima produzione, di cui replica ancora una volta forme e temi: quintali di soggettive dell'assassino, telefonate con voce rauca, musiche invadenti dei Goblin, attori lasciati vagare senza direzione alcuna, un serial killer schizoide traumatizzato che fino all'ultima scena è tranquillissimo e poi improvvisamente si mostra per il debosciato che è, una sceneggiatura scritta con la mano sinistra, ecc.
E poi il solito personaggino gay. Anzi due. Anzi tre. Anzi quattro (forse): melius abundare... Si inizia con due lesbiche, un'aggressiva giornalista femminista (che, secondo la raffinata teoria dell'agente letterario, «rompe le palle perché vorrebbe averle») e la sua compagna col "vizietto". Dopo che l'assassino ha preso a uccidere ispirandosi al nuovo romanzo di uno scrittore di gialli di successo, è subito il loro turno, non prima che la macchina da presa si sia sfogata in uno dei movimenti più gratuiti che la storia del cinema ricordi. Prima tocca alla rompipalle, poi alla sua compagna, che dopo aver rimorchiato un maschione in un bar si mostra in tutta la sua patetica incapacità di accettarsi, prima di essere presa a rasoiate. Il terzo personaggino gay è una baffa effeminatissima amica della femminista, che la avvicina al bar per aggiornarla sulla sua vita privata, che fortunatamente ci viene risparmiata. Il quarto è un critico letterario cattolico che in preparazione di un'intervista chiede allo scrittore perché sia così ossessionato dalla perversione, assicurando che l'argomento gli sta a cuore e mostrandosi, come dire, non proprio virilissimo: visto che siamo in un film di Argento non ci sono dubbi sul fatto che i gay sono effeminati e gli effeminati sono gay, quindi chiunque difetti dei connotati medi di machismo è lecitamente "sospettabile". Inoltre, si tratta proprio dell'assassino, che si è messo in testa di fare piazza pulita dei "perversi".
Quasi per mettersi un pochino al riparo dalle critiche, attraverso il personaggio dello scrittore in due occasioni Argento avanza qualche timida difesa. Anzitutto, quando viene incalzato dalle domande della giornalista lesbica, che accusa il suo romanzo di essere misogino, lo scrittore si difende assicurando di amare le donne e di essersi impegnato per la causa femminista. La giornalista gli fa allora notare fin troppo gentilmente che il problema non è lui, ma i suoi libri. E poi in realtà il problema è anche lui, perché è anche lui un assassino e proprio per i suoi inconfessati problemi con le donne: il flashback vagamente onirico (come in tutti gli altri thriller di Argento...) chiarisce i motivi di tanta avversione rimandando il tutto a un trauma del passato: da giovane lo scrittore aveva sorpreso la sua amata sulla spiaggia a strusciarsi contro tre o quattro maschioni mezzi nudi, se l'era un po' presa e aveva finito col prenderle, sicché si era vendicato ammazzandola.
La seconda autodifesa viene proprio con l'intervista del giornalista televisivo, che gli chiede donde derivi tanto interesse per i perversi e per la loro eliminazione. Anche questa volta lo scrittore prende le distanze dal suo personaggio, al quale finisce però con l'assomigliare, visto che sarà proprio lui a eliminare il giornalista piantandogli una scure in fronte.
Parafrasando la femminista, rompipalle ma mica scema, il punto è che Argento potrebbe pure essere iscritto all'Arcigay, ma rimane da chiedersi perché nei suoi film si diverta a rappresentare sistematicamente in modo così scemo e patetico i personaggi omosessuali, e perché li faccia sempre finire al macello. Una cosa non spiega, e soprattutto non giustifica, l'altra. Lo scrittore quanto meno può far notare al suo giornalista che il personaggio gay del suo libro è rappresentato come una persona felice: nel cinema di Argento questo non accade mai.