recensione diAlessandro Rizzo
Pink Narcisus: l'inizio della videoarte in una rivisitazione gay del grande mito
La sensualità di un dolce e tenero ragazzo, che si spoglia con gradualità e lentezza e si adagia su un letto suntuoso al suono di una musica distensiva quanto invitante proveniente da un vecchio grammofono, quale "I've Grown So Lonesome Thinking of You", traspare in uno dei tanti fotogrammi in cui si suddivide Pink Narcisus. Parliamo dell'opera di James Bidgood vero autore di uno dei più importanti lavori indipendenti e underground americani che hanno dato vita alla visual art attuale. La sua paternità ha avuto alcune vicissitudini in quanto la casa di produzione, Sherpix, si riprese l'opera licenziando il vero artefice e la fece uscire come opera di anonimo, risaltando i nomi degli autori del montaggio e della colonna sonora, Martin Jay Sadoff. Solo un'intervista rilascaita da Bidgood a Il nudo maschile, liro edito dalla Taschen, ci svelerà la vera paternità.
E', questo, un delirio senza narrazione dove ogni significante diventa significato. Si può tradurre Pink Narcisus in una lunga poesia onirica quanto barocca dove allegorie e metafore si addensano e si confondono per dare un'interpretazione post moderna e omosessuale del mito di Narciso. Il giovane protagonista, di cui non si conosce il nome, è un ragazzo dalla bellezza divina che vede nell'estetismo la forma di comunicazione privilegiata, dando, così, valenza e valore alle visioni letterarie della poetica di un remoto e imperituro Oscar Wilde, che ne esaltava la forma rivoluzionaria e dirompente. E a essere esaltato, quasi antropomorfizzazione dell'estetica, è il ragazzo, celebrato nelle sue forme sinuose quanto accattivanti, in un passaggio scomposto, incessante e surreale di uno sperimentalismo acuto e raffinato, mentre si può dire che la produzione materiale sia stata, invece, lenta e inesorabile, durò 7 anni dal 1964 al 1971.
Il sensuale e strafottente fanciullo si trova in panorami onirici in compagnia di altri ragazzi in un harem tutto al maschile, la scena del ragazzo che danza con i veli e con un membro sempre in erezione è un momento artistico esilarante, o in una corrida a sfidare un motociclista virile, oppure, infine, in un'antica Roma come novello imperatore. Il giovane Narciso in salsa rosa si trova anche fauno, contemplando momenti di violenza sessuale in un immaginario gabinetto pubblico, in una ricerca continua del sesso, la materialità si scontra con la visione ideale della bellezza, nelle strade con insegne luminose scintillanti e commerciali. E' in una città perduta e fantastica, densa di alienazione, in cui ad alienarsi è la condizione dello spirito, la miseria e la finitudine di un uomo, che è un "virgilio" erotico nella perdizione attraente dell'eros, senza obiettivi esistenziali, in una contrapposizione lacerante di ruoli contraddittori e contraddistinti, dall'essere marchettaro all'essere cliente, che ne accentuano la forza immaginifica della corporeità statuaria.
La visione porterà lo spettatore in una condizione ipnotica di contemplazione fine a sé stessa, ma pregna di quello che sarà il gusto kitch di molte opere a tematica, dove tutto è incentrato su colori acidi e freddi, a tendenza violacea o rosea, dando quasi un'identità a questo capolavoro americano che è la summa cinematografica dell'esaltazione del corpo maschile.
Pop, camp, piani sequenza fissi, esaltazione degli oggetti suntuosi, scintillanti specchi, panistici panorami contemplanti una luna piena luminosa: sono gli aggettivi di una moderna e pionieristica video arte che fa del feticismo e dell'autoeortismo le proprie basi poetiche. Il mito ritorna con un Narciso autocontemplativo, soprattutto nella fase della masturbazione che diventa eruzione di un liquido denso e coinvolgente, lirico fotogramma di un compinimento artistico a tutto tondo, le musiche di Mussorgsky alimentano questa caratteristica, timoroso di un confronto con l'altro, ansia che si percepisce nella tecnica di sequenze incessanti e improvvisi cambi di scenografia dal sapore decadente e idiliiaco. E' un mediometragio dall'intensità della fotografia magistrale e che sa riprendere e immortalare posizioni poetiche a tinte a volte sentimentali, a volte erotiche, spesso melodrammatiche per la solitudine in cui si trova il protagonista, a cui si accredita lo pseudonimo immaginario Bobby Kendall. Disperazione ed egocentrismo sono le peculiarità di questo ragazzo senza futuro e prospettive, abbandonato ai sensi e all'esaltazione di un corpo statuario, che portano questo primitivo videoclip di media durata a paragonarlo alle opere di un Cocteau sulla scia di un novello e rivistato surrealismo, che recita nel suo manifesto fondativo del 1924: "comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale". Il ragazzo è disinibito, spesso sfacciato, spudorato e insolente, ma anche genuino, dato che il reale autore ha preso l'attore principale e quasi unico dalla strada, prelevandolo dalla contemporaneità e immettendolo in un regno del sogno e del flusso incessante delle passioni edonistiche.