recensione diMauro Giori
Dall'inizio alla fine... e in mezzo niente
Il film si apre con la rappresentazione di una famiglia perfetta: in una villa immersa nel verde, due bimbi sorridenti giocano fra di loro, un padre sorridente gioca con loro, una madre sorridente abbraccia i bambini che giocano sorridenti col padre sorridente. Tutto al rallentatore. Ci aspettiamo ovviamente una strage, ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta. Fin da quando ci leggevano le fiabe da piccoli, sappiamo che l'equilibrio iniziale di una storia serve solo a essere infranto, altrimenti non c'è racconto. Tanto più perfetto sarà l'equilibrio, tanto più traumatico il trauma. Se poi il film ha esigenze più o meno conservatrici, l'equilibrio verrà semmai ristabilito alla fine.
Dunque, ogni volta che la famigliola prende la macchina ci aspettiamo un incidente mortale, ma niente. Ci aspettiamo allora almeno che le precoci tensioni incestuose fra i due fratellastrini (si dirà così?) sconvolgano i genitori, i quali invece si limitano a una passeggera perplessità. Per scongiurare il diabete alle porte preghiamo infine che, una volta adulti e conviventi more uxorio, i due fratellastri debbano affrontare una società impreparata ad accettare il loro amore. Speriamo insomma sadicamente che succeda qualcosa per cui debbano rivendicare il loro diritto di amare come vogliono. Una delle solite cose: un vicino di casa invidioso, una vicina di casa fondamentalista, un parente che non ha una vita sua di cui occuparsi, almeno un amico troppo legnoso per condividere vedute tanto aperte. Ma niente: benché i due si bacino e abbraccino in pubblico, nessuno manifesta scandalo. Viene da chiedersi se davvero il Brasile sia una terra così avanzata da poter fare da modello alla Svezia per nuovi traguardi.
Il problema di Do começo ao fim è proprio che l'equilibrio non si infrange, che tutto fila liscio dalla prima all'ultima inquadratura, che non ci sono tensioni, non c'è una storia.
Nemmeno la morte produce dramma. Che il padre del maggiore e la madre passino a miglior vita si traduce semplicemente nel fatto che i due fratellastri, divenuti grandi e formosi (il maggiore sembra Raoul Bova, ma si riconosce perché sa recitare), possono finalmente consumare. E non perdono tempo: di ritorno dal funerale si spogliano, si abbracciano e fanno evidentemente anche qualcos'altro. Tanto che pure il padre del minore decide di togliersi di mezzo e lascia loro la villa perché possano coltivare in pace il reciproco amore.
A questo punto mi ero rassegnato, cominciando a pensare che, dopotutto, proprio l'assenza del dramma poteva avere un suo sottofondo politico. O magari addirittura un riflesso mitologico che mi ero perso: la villa immersa nel verde come nuovo Eden per questi Adamone e Adamino destinati a fare indigestione di mele. E invece ecco arrivare la tragedia tanto attesa: Adamino viene selezionato per le olimpiadi e deve andare in Russia per allenarsi: niente più mele per tre anni. Ho pensato esattamente la stessa cosa che probabilmente pensate voi: questi due hanno iniziato a inciuciarsi quando avevano quattro anni, sono andati avanti imperterriti sotto gli occhi dei genitori e poi della società tutta per altri venti, e non è successo mai niente, niente di niente, e ci si vuole vendere come dramma il fatto che uno dei due deve fare le olimpiadi? Sono andato di corsa a controllare il nome del regista, perché credevo che solo Ozpetek potesse fare cose del genere. E invece c'è anche Aluizio Abranches.
Ora, trascuriamo il motivo per cui il piacente giovanotto deve allenarsi in Russia e le piscine brasiliane non bastano, poco importa. Se c'è una ragione, sarà un ipertecnicismo sportivo di cui io, che mi stanco fisicamente a guardare il tennis in televisione, non so nulla. Il punto è il seguente: se il dramma è che i due fratelli devono separarsi per tre anni (non essendosi mai lasciati per più di mezza giornata); se i due hanno tanti di quei soldi da non necessitare di lavorare; se si amano alla follia come non succede più nemmeno nelle fiabe mielose (ma ammetto di non conoscere quelle brasiliane); allora perché il maggiore, semplicemente, non va in Russia anche lui? La risposta è semplice: perché persino Abranches (che è anche lo sceneggiatore) si è reso conto che un drammino bisognava pure inserirlo ed evidentemente non gli è venuto in mente niente di meglio. In attesa ovviamente di ristabilire l'equilibrio alla fine. Come? Ebbene sì: il fratello maggiore raggiunge in Russia il minore. Sic et simpliciter.
Al confronto dell'inconsistenza del racconto i vezzi di regia, come la camera-Parkinson che va tanto di moda, infastidiscono meno.