saggio diEnrico Oliari
28 febbraio 1884, Cassazione di Torino: due gay condannati ... per rumori molesti
Le cronache storiche riportano di molti omosessuali condannati per tali reati, ma ciò che rende particolare il caso dei due ragazzi liguri è che il tutto scaturì dal fatto non di essere visti, ma di essere sentiti nei loro dialoghi da un ospite dell’albergo che alloggiava nella camera attigua.
Quest’ultimo, certo di aver pizzicato i due rei in flagrante, chiamò la cameriera che a sua volta avvertì il proprietario dell’albergo e quindi le autorità di pubblica sicurezza.
Il 12 giugno dello stesso anno si tenne a Genova il processo di primo grado, dove i due imputati vennero condannati a tre anni di carcere.
Data però l’incredibilità del fatto di essere perseguiti sulla base delle testimonianze di chi udì dei dialoghi, ma non vide il rapporto sessuale, i due, Luigi De Barbieri e Antonio Marchese, decisero di ricorrere al giudizio di secondo grado, ma la Corte d’Appello genovese, riunitasi il 31 luglio, confermò la sentenza.
Il reato contestato era il 425 del Codice penale del Regno di Sardegna, il quale recitava: “Qualunque atto di libidine contro natura, se sarà commesso con violenza, nei modi e nelle circostanze prevedute dagli articoli 489 e 490, sarà punito colla reclusione non minore di anni sette, estensibile ai lavori forzati a tempo; se non vi sarà stata violenza, ma vi sarà intervenuto scandalo o vi sarà stata querela, sarà punito colla reclusione, e potrà la pena anche estendersi ai lavori forzati per anni dieci, a seconda dei casi”.
L’Italia era stata unificata da poco e si sarebbe dovuto attendere il 1889 per avere il primo codice penale nazionale, il “Codice Zanardelli”, che, tra l’altro, abrogò l’articolo che condannava i reati “contro natura”.
Nel frattempo era applicato il codice penale del Regno di Sardegna, ma, fatto curioso, ne erano esclusi i territori dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Il De Barbieri sentiva comunque di essere vittima di una palese ingiustizia e delegò il suo avvocato a ricorrere alla Corte di cassazione di Torino.
Il tempo d’attesa fu relativamente breve: pochi mesi dopo, il 28 febbraio 1884, il presidente della Corte, Rossi, poteva già rigettare il ricorso, con una sentenza che, vista con gli occhi di oggi, può è quantomeno curiosa.
La difesa mirava a dimostrare la non violazione, da parte dell’imputato, dell’articolo 425, sia perché il rapporto avvenne in un luogo privato, sia perché, non essendoci stata penetrazione fra i due imputati, si trattava di un tentato reato contro natura e non della sua attuazione (articolo 323 del codice di procedura penale).
“Il fatto avvenne”, disse il difensore “in una camera chiusa per modo che altri non si poteva entrare e quindi non poteva aver caso di parlarse di scandalo, poiché il fatto era accaduto in un luogo privato, ove era escluso il concetto della pubblicità. La corte dunque confuse i termini della questione, perché se l’albergo era pubblico, non lo erano le stanze assegnate a chi aveva preso alloggio in esse: cotesto errore cagionò un’erronea soluzione e trasse con se la violazione dell’articolo 425 precitato e reso nella sentenza per diffetto di motivazione”.
L’avvocato di Luigi De Barbieri passò quindi a mettere in discussione la sentenza di secondo grado, sostenendo “la violazione ulteriore dell’articolo 323 n. 3 del codice di procedura penale, perché mentre era stato dedotto come motivo d’appello che tutt’al più sarebbesi trattato di reato tentato e non mai di reato consumato e mentre la resultanza della causa dimostra che l’atto sodomitico non fu compiuto, la corte con una motivazione troppo laconica ed incerta, condannò il De Barbieri omettendo completamente di giudicare sul motivo sovraccennato”.
La Corte di cassazione motivò il rigetto del ricorso sostenendo che “l’articolo 425 punisce l’atto contro natura a prescindere dal pubblico o privato. Vi fu scandalo in quanto quel fatto fu avvertito per discorsi fra il ricorrente e l’altra persona (Il Marchese, ndr) da un altro che ha affittato in attigua stanza e dai quali potè comprendere l’atto turpissimo che fra essi si commetteva e si determinò ad avvisare la cameriera e il padrone per farli cessare, come avvenne, facendo questi intervenire, a proposito, il delegato di pubblica sicurezza: onde è chiaro che per quel fatto costituisse offesa al senso morale di chi lo conobbe, si verificò lo scandalo a cui accenna l’articolo 425 sopra citato e che la Corte poteva rettamente aver avuto luogo”.
Lo scandalo ci fu, quindi, ma mancava di stabilire se si trattò di reato commesso o di reato tentato: “… la Corte di questa questione si occupò quando disse che dalla resultanza della causa era provato che l’atto di libidine compiuto dai due imputati e così anche dal ricorrente presentava gli estremi del reato di cui all’articolo 425 del codice penale e così del reato consumato; che se cotesto motivo fu espresso in modo assai succinto, ciò vuolsi attribuire all’essere già assodato per la costante giurisprudenza di questa Corte suprema e sì pure che quella di Firenze, che non solo l’atto sodomitico, ma qualunque atto inteso a cercare un compiacimento carnale al di fuori delle vie naturali, ed esercitare sopra persona dello stesso, o di diverso sesso, costituisce atto di libidine contro natura, quand’anche non susseguito da completo sfogo carnale, in quanto al legge non ha stabilito quali siano gli atti che costituiscono le varie fasi della esecuzione di sifatto reato e poiché nel caso la Corte ritenesse che il ricorrente introdusse il suo membro virile nell’ano del Marchese, e quindi che l’atto stesso fosse consumato, un sifatto giudizio, rimosso al criterio del giudice di merito, non può, in difetto di più questa disposizione di legge, essere contestato”.