American Gigolò

28 novembre 2020

A costo di dire un'eresia, a guardare oggigiorno American Gigolo è difficile capire cosa renda Julian Kay, il gigolò del titolo, il più quotato del circondario di Los Angeles. Certo, a interpretarlo c'è il divo Richard Gere, che però non era ancora tale nel 1980, né lo sarebbe diventato se non fosse stato per questo film.

Eppure il suo Julian Kay ha tutta l'aria di essere un'illusione collettiva, un usurpatore dell'immaginario femminile: sa le lingue, okay... ma sofisticato non lo è, carismatico men che meno. Però gli abiti di Armani gli stanno da dio, gliene va dato atto.

Non è comunque l'unico personaggio a mancare di carisma, in questo rarefatto thriller drammatico in cui il regista e sceneggiatore Paul Schrader mette lo stile prima della tensione, facendo molto affidamento sul genio del production designer Ferdinando Scarfiotti e sulla tecnica del direttore della fotografia John Bailey. Anche il cattivo principale Leon James (Bill Duke) non è particolarmente accattivante, privato di battute memorabili dalla logica di Schrader secondo cui less is more.

Di base Leon è uno Iago afroamericano alto un metro e novantaquattro, con una passione per i twink biondi. Questi si vendica dell'indisponibilità di Julian a entrare nella sua scuderia di prostituti, incastrandolo per un delitto a sfondo sadomasochista compiuto con buona probabilità dal boccoluto protégé dello stesso Leon.

Richard Gere ha asserito di essere stato intrigato dalla parte di Julian per via dei suoi sottotesti omosessuali, e in effetti ci ha visto giusto. Al di là del suo narcisismo che non lo rende assimilabile agli eroi classici di Hollywood (e nel film di eroi non ce ne sono, a parte Lauren Hutton, fedifraga dal cuore d'oro), il personaggio di Julian - detto "Julie" - sembra animato dalla volontà di esorcizzare le "derive" gay della propria professione.

Per tutto il film continua a dire infatti «I don't do fags» («non me la faccio coi froci»), ma la sceneggiatura non lascia dubbi che in passato abbia avuto anche questo tipo di esperienze... e quando si trova con l'acqua alla gola a causa del complotto di Leon, quasi tra le lacrime promette di (ri)cominciare a fare marchette pure con gli uomini.

Ma la "prova provata" del suo desiderio di allontanare lo spettro dell'omosessualità sta nell'orribile pantomima in cui si cimenta per prendersi gioco di una ricca vedova (il motivo non è chiaro: forse vuole evitare di averla come cliente?): si finge un decoratore d'interni tedesco, mettendo malamente in scena il più frusto campionario di mossette e affettazioni.

Oltre all'omosessualità ipotetica di Julian, c'è poi naturalmente quella espressa di Leon e della sua corte di marchette. Molto più delle psicologie - non pervenute - importano i luoghi in cui questi personaggi si muovono: l'appartamento di Leon, caratterizzato soprattutto dai poster della serie dei Torsos di Andy Warhol e da un divano con un pattern tipo pelle di serpente (Leon infatti è una serpe), e soprattutto il locale "Probe", quello autentico.

Preceduto da un ingresso stretto e oscuro, il "Probe" è popolato da maschioni un po' più timorati rispetto ai loro omologhi newyorchesi del contemporaneo Cruising di William Friedkin: le loro trasgressioni non vanno oltre a una (singola) sniffata di popper e a una canottiera sfilata.

Gli avventori del locale si dimenano seguendo il ritmo di Love & Passion, scritta da Schrader con Giorgio Moroder, autore dell'indimenticabile colonna sonora con la celeberrima Call Me dei Blondie. Il mantra della canzone è «Love and passion / back in fashion», che è anche la morale di un film complessivamente gelido, in cui l'amore della Hutton per Gere/Julian prevale all'ultimo istante sulla corruzione e l'opportunismo di un mondo in cui tutto può essere comprato.

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