Ospite al festival di cinema gaylesbico di Milano, il regista portoghese Joao Pedro Rodrigues ha presentato Odete, il suo secondo film che nel 2005 ha ottenuto a Cannes una menzione speciale per il cinema di ricerca e che Mikado distribuirà in Italia.
Una storia eccentrica ed estrema raccontata con ritmo molto personale, anche se ricco di rimandi al classicismo maledetto di registi come Fassbinder e Jarman. Odete, la protagonista, è una commessa di supermercato di Lisbona che reagisce all'abbandono da parte di uno scultoreo fidanzato inventandosi letteralmente di essere rimasta vedova di un vicino di casa, un ragazzo gay morto in un incidente stradale, e di aspettare un figlio da lui. In un crescendo di fantasia delirante e gesti plateali, riuscirà lentamente a insinuarsi nel dolore inconsolato della madre e dell'amante del morto e a fare accettare la sua finzione. Ne abbiamo parlato un po' con il regista.
Odete, come anche il tuo precedente lavoro O fantasma, è un film dell'oscurità. Oscurità fisica, delle scene e degli ambienti descritti, ma anche dei sentimenti e del senso della vita. Come mai questa predilezione per il buio?
Io cerco di raccontare le storie che sento prossime. Non so se c'è una ragione. Sono le storie che mi vengono in testa e che hanno qualcosa a che vedere con cose successe nella mia vita, anche se non sono autobiografiche. Nel mio primo film, O fantasma, il protagonista lavorava le notte e anche in Odete la protagonista lavora la notte. Per girare O fantasma, con il direttore della fotografia abbiamo provato fino a che punto si poteva filmare senza luce, anche perché il personaggio era un po' in una frontiera tra il mondo della luce e il mondo dell'oscurità. Un po' come nei quadri di Caravaggio, che mi piace anche perché i corpi dei suoi personaggi, come quelli dei personaggi dei miei film, sono corpi di persone del popolo.
Ma l'oscurità è anche un modo per rappresentare il senso della condizione umana, no?
Anche la condizione umana si trova a metà tra la luce e l'oscurità. Comunque io non voglio generalizzare e far pensare che i miei film siano simili alla vita di tutti. Detesto i film che vogliono dire troppe cose per insegnare la realtà. Mi sembra che tutto si possa capire senza dirlo. Si tratta di storie individuali e di fiction. Di certo io sono attratto dal lato più oscuro delle persone.
I tuoi schemi narrativi sono distanti da quelli più popolari basati su ritmi incalzanti. Cosa ti allontana da questo modo di raccontare?
Io penso sempre al cinema di una volta. Per questo film, in cui volevo parlare della morte e di come si elabora la perdita di chi si ama, mi hanno ispirato molto i melodrammi classici degli anni '40 e '50, come quelli di Douglas Sirk. Anche Fassbinder è un regista che mi piace molto. E tra i francesi Robert Bresson. Anche lui andava sempre verso l'essenziale.
Quando sei solo e disperato puoi fare cose incredibili e io ho cercato di rappresentarle con la forza del melodramma, con elementi di finzione esagerati che servono però a rendere verosimile ciò che sembra inverosimile. Come del resto accade nella vita, che è spesso più inverosimile della fiction ma ci si crede.
Anche gli scorci di realtà contemporanea che appaiono nel film sono molto surreali...
Ma sono veri. Odete lavora in un supermercato stando tutto il giorno sui pattini a rotelle. Non so se esista questo anche in Italia, ma in Portogallo esiste, non l'ho inventato. E' un segno della solitudine delle persone di questi tempi. Comunque, questa descrizione della realtà è solo un punto di partenza, perché poi quello che interessa sono solo i sentimenti dei personaggi.
Che sono sempre molto estremi. Perché?
Perché anch'io sono così e mi piacciono le persone che vanno fino in fondo. E forse anche perché nella finzione si può fantasticare su ciò che si vorrebbe essere e non si può essere.