L’uscita di due nuovi volumi di Herb Ritts (Donna Karam e Work) ci dà un’altra buona occasione per riflettere su questo grand-maître del bianco e nero. Completamente autodidatta, poi assistente del ben più talentuoso Bruce Weber ed infine lanciato internazionalmente con delle foto scattate al suo amico Richard Gere agli inizi degli anni ’80, seppe imporsi immediatamente attraverso le riviste più fashion del momento. Anche se oggi risulta stilisticamente assai ripetitivo e stanco, è innegabile che abbia fatto veramente epoca. I suoi detrattori l’hanno sempre criticato per la sua “superficialità” ma è proprio in questo suo specifico che bisogna individuarne i pregi e la sua originalità. Ritts cerca una “spontaneità”, per quanto assurdo possa sembrare, grazie all’eccesso di movimenti e volumi. Tutta l’essenza del maschile è esasperata e ogni particolare appare in primo piano, tracciando una linea grafica del desiderio che trova paragone soltanto nei disegni di Tom of Finland o Jean Cocteau. Trascrizioni di esagerazioni e prodezze anatomiche che hanno come costante figurativa quella della ridondanza, degli avvitamenti ed esplosioni di forma. I corpi diventano monumentali, enigmatici ed eterni nelle loro pose da “natura morta”. I soggetti sembrano provenire da qualcosa d’ignoto: non “ideali” ma “idoli”. Non è un caso che Ritts sia celebre soprattutto per foto di nudo, i suoi modelli vi diventano objects de luxe et volupté troppo perfetti, troppo belli, troppo intellettuali e troppo in posa. Sono come bronzi antichi salvati dagli abissi che continuano ad infondere silenzi primitivi ed oscuri presagi, nell’approccio impossibile tra oblio e ricordo, tra libido e mortido. Luce e ombra portano segreti omaggi d’amore sui corpi muscolosi di queste creature, le quali, misteriosamente vanno assumendo connotati del regno animale, vegetale e minerale. Le superfici incominciano a compenetrarsi, equivalersi ed amalgamarsi lentamente. Uomini acqua, aria, sabbia, conchiglia che a volte si tramutano anche in albero, catena, paralume, bassorilievo e roccia. Siamo nel delirio estetico dei sensi, al limite dell’umano, che meglio di tutti il poeta Gabriele D’Annunzio descrisse in Alcyone con questi versi: "In tutto io vivo tacito come la morte. E la mia vita è divina".