Philadelphia

19 agosto 2004

Più che un film sul'AIDS, Philadelphia mi è sempre parso come una sorta di mea culpa di Hollywood sull'omosessualità in generale. Forse più in conseguenza del successo che negli ultimi anni la tematica omosessuale ha riscosso al cinema che per sincero interesse a mettersi al passo con le trasformazioni della società americana, Hollywood si aggiorna con una certa enfasi inserendo il tema scomodo all'interno di strutture narrative di sicuro effetto, quelle del melodramma e del dramma processuale.

Il film si rivolge a diverse categorie di spettatori con precise strategie, consolatorie, accusatorie, compassionevoli, che fanno capo a diversi personaggi.

Philadelphia vuole innanzitutto graziarsi gli omosessuali, ai quali assicura una gratificazione certa e una sorta di beatificazione per indennizzarne la decennale ghettizzazione (ma anche Demme aveva un conto aperto con la comunità gay americana, che non aveva gradito Il silenzio degli innocenti): sono loro gli eroi della storia, i perseguitati innocenti ritratti in modo quasi idilliaco, con misurato vittimismo.


Poi si rivolge ai non omosessuali che non hanno niente contro gli omosessuali, per indifferenza, per "ampiezza di vedute" o per autopersuasione, che potranno sentirsi gratificati dal loro essere super partes, né vittime né carnefici, salvi dalla sfortuna genetica e superiori a chi la persegue: potranno seguire il processo lontani dal banco degli imputati, identificandosi semmai col giudice.


Infine si rivolge agli omofobi veri e propri. Per loro il caso è più complesso. Philadelphia è un'opera a tesi: raccontare interessa poco, qui si tratta di persuadere, e la tesi - trionfo del politically correct, ovviamente - è che l'individuo si giudica in base ai meriti e non in base all'appartenenza a gruppi sociali in qualsivoglia modo definiti e caratterizzati. Hollywood scopre l'acqua calda, ma è proprio l'esistenza di un (folto) pubblico del terzo tipo a salvare dal ridicolo tanta ovvietà, esibita senza moderazioni nella sceneggiatura.

La costruzione del film è congegnata per intervenire persuasivamente su uno spettatore di questo tipo. A ciò serve la polarizzazione manichea tra buoni e cattivi (inequivocabilmente identificabili), esasperatamente semplicistica: così, per esempio, Andrew è enormemente benvoluto da amici e parenti, tutti buoni, mentre l'avvocato della difesa è smaccatamente sgradevole e insinuante. In mezzo, Joe deve rappresentare il percorso dall'omofobia alla progressiva tolleranza e comprensione che il film vorrebbe far seguire al pubblico. Joe è l'eterosessuale tipo che si trova a fare i conti con i pregiudizi assorbiti dalla società in tutta una vita, e si sforza controvoglia di metterli in discussione, pur senza essere disposto ad abbandonarli integralmente, poiché continua a riconoscere loro un fondo di validità.


Per persuadere è meglio avvincere piuttosto che assalire. L'arma decisiva per raggiungere lo scopo è la forte carica patetica del malato Andrew - Hollywood ha una certa esperienza in questo genere di rappresentazioni -, che lo raffigura chiaramente come una vittima inerme che non può non suscitare compassione: alcune scene eccedono anche in questo senso (lo specchio al processo, il ballo callasiano con la flebo) e, a seconda dei gusti, le si considererà ingenue o intense, ma di certo non sono eccessive nella logica del melodramma.


L'AIDS dunque è strumentale, e non lo è meno il processo, che esplicita la volontà di mettere sotto processo, appunto, i pregiudizi. Sono cioè solo strumenti del patetico, occasioni narrative, come poteva esserlo una cena per presentare il contrasto tra il liberale pro forma Tracy e il brillantissimo nero Poitier: i cliché non sono cambiati di molto.


La mano di Demme tempera qua e là i sensi di colpa hollywoodiani e conferisce al film qualche dignità formale, nonostante alcune scelte decisamente sbagliate (come quella di Banderas nel ruolo del compagno di Andrew).

Ma alla fine le ombre rimangono, e riguardano principalmente proprio il protagonista Andrew, modello di gay dignitoso e introverso. Andrew è accettato proprio per questa sua perfezione sovrumana, ma altri omosessuali sono meno graditi: quelli aggressivi e compiaciuti (orgogliosi?), messi alla berlina con il ragazzotto del supermercato. Il film non spinge quindi il personaggio di Joe alle estreme conseguenze, scelta di nuovo ambigua che si può leggere come comprensibile opzione realistica o anche come prudenza per non rischiare di infastidire troppo il pubblico "del terzo tipo".

La litigiosa lobby gay americana non ha apprezzato. Si può infatti discutere se il film tenti davvero di "riabilitare" l'omosessualità (ma sembra puntare più alla tolleranza che all'accettazione, e non sono la stessa cosa) o finisca piuttosto col giustificare forme "velate" e "selettive" di omofobia: certi omosessuali si devono accettare, altri è invece comprensibile (e quindi giustificabile) che li si voglia prendere a botte.


Ambiguità forse inevitabili quando si ricorre alla correttezza politica, con tutte le moderazioni e le prudenze che essa implica. Va da sé che non è da Hollywood che ci si devono aspettare opere radicali sul tema, ma questo non significa che tutto ciò che Hollywood lesina in materia debba essere automaticamente accettato con gratitudine.

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