recensione diFrancesco Gnerre
Carne e sangue [1995]
Nel 1935 Constantine Stassos ha otto anni e lo vediamo, in un villaggio della Grecia, arrancare eroicamente sul suo metro quadrato di orto per un declivio roccioso, convinto che riuscirà, con la sua determinazione, il suo lavoro e la sua forza di volontà, a farlo fruttificare.
Nei decenni successivi lo troviamo in America dove con la stessa caparbietà riesce a coronare il suo sogno, costruire la sua famglia "americana", una moglie, tre figli, una bella casa, simbolo concreto del suo successo.
Ma presto tutta l'impalcatura costruita con la fatica e col dolore, comincia a scricchiolare e Constantine deve fare i conti con un equilibrio sempre più precario e con la paura che da un momento all'altro tutto può crollare: c'è sempre un prezzo da pagare per questo tipo di esistenza ordinata e spesso si tratta di un prezzo veramente troppo alto.
Il narratore accompagna per un arco di tempo di cento anni i componenti di questa famiglia "ordinaria", tutti personaggi di straordinaria autenticità: Mary, la moglie di Constantine, con le sue insoddisfazioni che assumono forme sempre più inquietanti; Susan, la figlia maggiore, forse la più infelice, consacrata al dovere, ma depositaria di indicibili segreti; Billy, il figlio gay, in una disperata guerra senza esclusione di colpi col padre; Zoe, la figlia ribelle, votata alla dissipazione e alla morte.
E poi i nipoti, Ben e Jamal, due adolescenti troppo presto alle prese con i drammi della propria identità e con le tragedie dell'esistenza.
Scritto nel 1995, prima di Le ore, il romanzo con cui nel 1999 Cunninhgam ha vinto il premio Pulitzer, meno sofisticato nella struttura narrativa, più lineare e tradizionale, Carne e sangue è anche più trascinante, più immediatamente coinvolgente e, se queste espressioni hanno un senso per un testo letterario, più politico e militante.
Nel raccontare questa grande saga familiare il narratore a volte è come un antropologo che registra i riti di una cultura prossima a crollare sotto il peso della propria storia, più spesso partecipa dall'interno alle esperienze di chi prova disperatamente a ridefinire il senso dei rapporti familiari e delle relazioni personali.
E questo avviene soprattutto con i personaggi di Zoe e di Billy, la prima, dolce e malinconica vittima dell'Aids; il secondo, sofferente di ferite e fierezze, simbolo di un faticoso ma alla fine vincente percorso gay, che riesce, con la stessa ostinazione del padre, ma con ben altra consapevolezza, a dare un senso alla sua vita.
E non è un caso che l'ultimo breve capitolo del romanzo, proiettato in un utopico 2035, sia tutto costruito sul ricordo di Billy e del suo compagno.
Un romanzo bello e appassionante, che affascina con la misteriosa forza della scrittura e quando si arriva all'ultima pagina, un po' storditi e forse con gli occhi un po' lucidi, viene da pensare che a volte niente come la letteratura riesce a illuminare con tanta intensità le contraddizioni della vita.