recensione di Marco Valchera
Carne e sangue
Carne e sangue, il secondo romanzo dello scrittore, vincitore del Premio Pulitzer, Michael Cunningham, si dipana per un secolo (1935-2035), raccontando la saga familiare degli Stassos, sorretta dal burbero e violento pater familias Constantine, rappresentante ideale del Sogno Americano. Da radici di povertà e di immigrazione (l’uomo, infatti, è di origini greche), il protagonista riesce a raggiungere una buona posizione sociale e un alto livello di ricchezza, ma a scapito dei rapporti familiari: divorzierà dalla moglie Mary, classica casalinga disperata degli anni Cinquanta, e non sarà mai in grado di amare i suoi figli, fatta eccezione di Susan, con la quale nascerà un amore incestuoso. Fino a che punto ci si può spingere nelle relazioni familiari? Quanto si può accettare o nascondere? Come, invece, si possono superare i dolori con l’appoggio dell’altro? Sono tutte questioni alle quali l’autore risponde tracciando le vite disastrate e disperate degli Stassos, i quali affrontano una vasta gamma di situazioni tragiche, in alcuni casi spinte al parossismo estremo (il sesso incolore tra i cugini Jamal e Ben).
Come Una casa alla fine del mondo anche Carne e Sangue è suddiviso in tre parti (Balletto d’auto, Saggezza criminale e Dentro la musica) e riprende alcune tematiche care alla penna di Cunningham: l’omosessualità, l’AIDS, il melting pot newyorchese, il tutto condito con un’amarissima riflessione sul raggiungimento dell’agiatezza e sulla problematica familiare. Billy, che poi si ribattezzerà Will, è l’unico figlio maschio e instaura con il padre, fin da subito, un violento rapporto di conflittualità, che si gioca sullo scontro tra la cultura del bambino e l’ignoranza del contadino e, soprattutto, sull’omosessualità del giovane. Billy fugge dai propri genitori e, trasferitosi a Cambridge, inizia le sue scoperte sessuali con altri uomini fino all’incontro che, ormai quasi quarantenne, gli sconvolgerà l’esistenza: Harry. La totale normalità e ordinarietà dell’altro lo costringeranno a prendere una serie di decisioni importanti e a ricercare, per la prima volta nella sua vita, stabilità e la possibilità di essere felice. I due, tra l’altro, faranno una gita insieme a Provincetown, la città tanto amata da Cunningham, alla quale ha dedicato un intero scritto geo-etnografico, Dove la terra finisce (2003).
Zoe, la figlia minore, decide anch’essa di allontanarsi dalla casa paterna e di rifugiarsi a New York, dove si lascia andare ad una vita dissoluta, fatta di alcool, sesso, droghe e locali notturni. Proprio in uno di questi conosce la transessuale Cassandra, l’unico personaggio fino in fondo positivo del romanzo, con cui la giovane crea una famiglia alternativa, fatta di amicizia, affetto e sostegno, quando entrambe scopriranno di aver contratto l’AIDS. Come Erich del precedente romanzo e Richard di Le Ore, la malattia sconvolge tanto il corpo quanto la mente della donna (“Zoe poteva udire gli alberi. Erano irrequieti per tutto quello che ricordavano. Vivevano in tempo reale, sembravano del tutto immobili. Zoe non parlava la loro lingua, ma sapeva di cosa erano stati testimoni.”), preoccupata per il futuro del figlioletto Jamal, abbandonato dal padre alla nascita.
Carne e sangue, valso all’autore il premio Whiting Writers’ Award nel 1995, è un romanzo ricco di passione, luci, ombre, ma di una spessa umanità: solo nel finale Cunningham ci mostra quanto la carne, il sangue, il sudore di una vita di affanni non facciano altro che trasformarsi in cenere, rivelando la caducità e la fragilità delle nostre esistenze.