recensione diGiulio Verdi
Un pettorale è un pettorale è un pettorale
In questi giorni spopola su YouTube questo video autoprodotto da un ragazzo di Chicago, Steve Grand, che si vende come "il primo cantore country dell'amore gay"[1].
Potrei compilare un lungo elenco delle caratteristiche indispensabili acciocché un artista si possa definire "country": cosciente che i generi musicali sono passibili di evoluzioni e modifiche, mi limiterò a scrivere che (tuttora) una melodia è country se si riesce a immaginare Johnny Cash che la canta. Banjo, chitarre e violini sono sempre ben accetti, come anche un certo gusto per quella sana malinconia che si respira nelle quiete comunità rurali. Due o tre accordi sono quasi sempre sufficienti, mentre alla dinamica vocale è assegnato un ruolo centrale nella comunicazione dello struggimento o della passione (anche per sopperire a un’estensione vocale di solito limitata). La joie de vivre è ammessa solo e soltanto se non esplode in ritornelli sguaiati e se è moderata da un determinato grado di ascesi. Capita di trovare riferimenti religiosi, ma le vicende delle Scritture sono vissute dalla maggior parte del mondo country in maniera disideologizzata: è spesso l’unica realtà culturale che ha assimilato, e la rielabora come espressione della propria condizione di inquietudine o oppressione. Un punto in più lo danno un’infanzia triste e misera, o una serie di gravidanze adolescenziali, oppure una laudatio temporis acti condotta con ironia, la cronaca disincantata di gioie e dolori della vita coniugale, talvolta anche un genitore violento o assente.
Ecco: di tutto questo, in Steve Grand, non esiste traccia. Anche al di là dei generi musicali, la canzone è – impiegando un termine in uso nelle alte scuole francesi – ‘na fetecchia. Ricalca vagamente lo stile del produttore Mutt Lange e della di lui ex moglie Shania Twain, senza possederne la maturità e l’originalità. La voce di Grand, poi, sarebbe perfetta per un talent show: in altre parole, è molto ordinaria. Il testo, messo in scena in modo didascalico nel video, parla della cotta che Grand si è invano preso per un suo amico eterosessuale: il verso più profondo è “il modo in cui codesta maglietta ti avviluppa il petto/ non me lo scorderò mai”. Il peggior bro-country in salsa gay, insomma.
Potrei a questo punto compilare un altro elenco con le caratteristiche indispensabili acciocché un artista si possa definire "artista": sintetizzerò, anche in questo caso, scrivendo che dodici ore al giorno di flessioni non sono proprio in cima alla lista. Il video di “All-American Boy” sembra essere soltanto il pretesto che fornisce a Grand (e al suo innominato amico) l’occasione per slacciarsi la camicia a scacchi per l’intera durata della canzone, per mostrarci con orgoglio che frequentano assiduamente la palestra e l’annesso centro estetico... insomma, l'occasione per fare leva su quel classico immaginario plastificato e un po' squadrista connesso con l'utenza/il mercato gay. Ma una camicia a scacchi è una camicia a scacchi è una camicia a scacchi: non basta quella per essere country, né per arrogarsi il diritto di sfruttarne il nome.
[1] E Wilma Burgess? E i Lavender Country nel 1973? E k.d. lang negli anni ’80? E Doug Stevens a partire dal 1992? E il suo quasi contemporaneo Mark Weigle? E Mary Gauthier? E Shane McAnally da vent’anni a questa parte? E Maia Sharp? E Brandy Clark? E Chely Wright? E i My Gay Banjo? E Drake Jensen?