recensione diMauro Giori
Alla ricerca del tempo perduto (nel vedere Sebastian)
I racconti di prostituzione, in un cinema indirizzato a un pubblico che si riconosce collettivamente in funzione del proprio orientamento sessuale, abbondano: si tratta semplicemente di gente che fa per professione ciò che tutti gli spettatori fanno per diletto. Questi racconti di solito eccedono in patetismo: sono storie di giovani sofferenti, sacrificati, sbandati, privi di alternative, che fanno ciò che fanno senza diletto. Storie, come quelle tradizionalmente ambientate nel mondo della pornografia, che iniziano male e finiscono peggio. Quando va bene, trasudano buoni sentimenti, magari per shakespeariana mediazione (Belli e dannati). Del resto, il prostituto di buon cuore non è che la versione maschile di un personaggio immarcescibile che nella narrativa è vecchio quasi quanto il mestiere che fa.
Sebastian (nome impegnativo nella tradizione dell'immaginario erotico gay) si propone di raccontare la prostituzione nell'epoca digitale, proprio come il suo protagonista. Il problema è che la prostituzione nell'epoca digitale o si fa in digitale (come, per dire, su Onlyfans, che però sembra ignoto tanto agli autori del film quanto al protagonista) o si fa di persona, e allora funziona esattamente come la prostituzione nell'epoca non digitale: il fatto che l'annuncio si metta su un sito anziché in una cabina telefonica e il cambiare nome al mestiere, come ogni cosa in tempi di correttezza politica, non spostano di una virgola la questione. I sex workers aprono dunque profili su internet: un po' poco per farci sopra un film come ha pensato di fare Mikko Makela, regista finlandese alle prime armi che probabilmente ha creduto davvero che vincere qualche premio nei festival gay con la sua opera prima certificasse la nascita di un talento. In un'epoca in cui ai giovani si racconta che possono scegliere tutto quello vogliono, essere tutto quello che vogliono, quando vogliono, basta che se lo dicano da soli perché le parole creano le cose, ecco che il venticinquenne Max, deciso a diventare uno scrittore (cioè a usare quelle parole dal potenziale così illimitatamente demiurgico nientemeno che per professione) ha deciso di raccontare il mondo della prostituzione, pardon, dei sex workers, e ha deciso di fare ricerca, cioè di prostituirsi per qualche tempo. Mestiere per il quale indubbiamente ha il physique du rôle (ignoriamo però se abbia anche ciò che normalmente si associa alla professione, dal momento che il regista si guarda bene dal portarlo in campo pur sforzandosi di trasudare sensualità: l'unico organo mostrato, assai poco provocatoriamente, è quello di un cliente interpretato da un attore di quarto piano, che serve solo ad accentuare lo squilibrio).
Ad ogni modo il buon Max ci prende gusto, e si capisce subito (ripeto, perché siano chiare tutte le implicazioni della questione: subito) che la ricerca per il libro era solo un pretesto: come Pacino in Cruising capiva che il suo lavoro di copertura negli ambienti leather gay gli piaceva proprio e andava incontro alla sua natura, così il bel Max scopre che il mestiere si addice alla sua natura narcisista e vagamente esibizionista.
O, se vogliamo, al suo desiderio di affetto che non si capisce bene cosa debba lenire, forse solo una certa ansia di vincere la competizione (in tutti i lavori che fa: sesso, scrittura, giornalismo). Perché alla fine ricadiamo di nuovo nel solito dramma emotivo: se la libera scelta di Max doveva rappresentare la novità (intraprendere un mestiere antico per scelta e senza sensi di colpa, lacrime e sangue), alla fine si ritorna sulla vergogna (che, nell'epoca digitale, significa titubare sull'uso di uno pseudonimo nel profilo online), sofferenza (solo che, nell'epoca digitale, significa non avere messaggi nella casella del sito, duro colpo per la stima personale) e sangue (salvo che, in epoca digitale, significa che il cliente cattivo anziché massacrare il giovane prostituto gli rompe il pc).
E anche nell'epoca digitale, nel momento di massimo sconforto il sex worker non trova niente di meglio da fare che chiamare la mamma e, a ruota, l'unico cliente di buon cuore (Nicholas, che guarda caso è un intellettuale e rifiuta di fare sesso prima di aver chiacchierato abbondantemente) per farsi riportare a casa tutto intero (pc a parte).
Allora questo sex worker digitale che non ha ancora scoperto che con Onlyfans può guadagnare di più, e senza farsi rompere il computer, finisce col raccontare una storia patetica di risaputa miseria. E io, che non ho più l'età di Max e faccio il mestiere del cliente buono, non ho potuto fare a meno di identificarmi con quest'ultimo e con la sua sofferenza: se infatti la retorica di Makela non sa far di meglio che presentarlo come un vecchietto riconoscente per qualsiasi cosa gli venga concessa dall'inattesa disponibilità di cotanta venustà, io non ho fatto altro che pensare a quanti vantaggi avrebbe tratto il mio collega se solo avesse visto Mighty Aphrodite, in cui Woody Allen spiega quella che mi piace immaginare come una delle grandi verità della vita, e cioè che se si paga un sex worker (aggiorniamo pure la battuta) è per farci sesso, punto e basta, senza doverlo poi intrattenere per un'ora conversando di Proust (che è poi nient'altro che la versione aggiornata della vecchia regola di Tibullo per cui per concupire un giovane bisogna rassegnarsi a concedergli tutto, anche se il tutto significa una lezione extracurricolare, oppure pagarlo). Il poverino invece si trova a dover fare anche da correttore di bozze a un Max che necessita più di magistero e affetto paterno che di clienti.
Insomma alla fine il racconto è esattamente quello che nega di essere, fatto di luoghi comuni vecchi quanto il mestiere di cui parla e cui il digitale non ha portato nessuna novità rilevante (se non proprio Onlyfans come approdo per attori e artistoidi falliti, o semplicemente pigri). La novità dovrebbe solo consistere nel fatto che alla fine Sebastian accetta di essere un... sex worker nell'anima e ne fa il suo secondo lavoro, tanto da ricevere ora direttamente a casa sua. Insomma un racconto di scoperta di sé dove la cosa da scoprire non è l'omosessualità ma il piacere di fare sesso occasionale con chiunque (ero rimasto però che metà comunità gay considera le due cose equivalenti da qualche decennio). Solo chiedendo un rimborso spese anticipato.
Questo il topolino partorito dalla montagna (pur di fattura complessivamente dignitosa) dopo un'ora e cinquanta minuti di noia: bastava forse (ma dubito) per un cortometraggio. E rimangono comunque molte domande aperte sull'epoca digitale, sui suoi nativi e su cosa porterà con sé il naufragio culturale della correttezza politica.