Confessioni di una maschera

13 luglio 2013

Confessioni di una maschera, pubblicato nel 1949 con grande successo di pubblico e critica, è in buona sostanza un’autobiografia sentimentale stesa da Mishima quando aveva appena ventidue anni, al suo esordio nel romanzo.

Due sono i cardini principali di questa lunga riflessione dai toni leggeri e disincantati, ma lucida e talvolta quasi impietosa. Anzitutto la scoperta della sessualità. Archiviata rapidamente l’infanzia nel primo capitolo, il secondo si apre con parole folgoranti:

Un giocattolo dalla forma bizzarra mi tolse la serenità per oltre un anno. Avevo tredici anni. Quando meno me l’aspettavo aumentava di volume, suggerendomi la piacevolezza che era in grado di trasmettermi se lo avessi usato nella giusta maniera. Mancava tuttavia di istruzioni scritte, e quando gli veniva voglia di divertirsi con me, per motivi indipendenti dalla mia volontà sprofondavo nell’imbarazzo.

Parole che non stonerebbero in un romanzo di Moravia, ma che sono solo il preludio di una duplice scoperta ancora più sconcertante:

Quando mi accinsi ad ascoltare con maggiore disponibilità i messaggi che mi indirizzava, mi accorsi che i suoi gusti erano già ben definiti, che disponeva di una sua disciplina e che, fatto ben più grave, l’insieme delle sue preferenze si collegava ai ricordi della mia infanzia, ai corpi nudi dei ragazzi visti in estate al mare, ai nuotatori nelle piscine dei parchi adiacenti i santuari, al giovane abbronzato che aveva sposato mia cugina e agli intrepidi protagonisti di molti racconti d’avventura, tutte immagini cui avevo attribuito fino a quel momento un lirismo di diversa natura.

Inutile dire che anche lui era attratto dalla morte, dal sangue e dai muscoli turgidi.

La scoperta, dunque, dell’omosessualità (poi sublimata per anni nella contemplazione di alcuni compagni di scuola), e quella di un immaginario aggressivo quando non apertamente sadomasochista.

Il secondo cardine, che prende piede nei capitoli successivi, è rappresentato dal tentativo di ignorare l’omosessualità avviando una relazione con la giovane Sonoko. All’istinto così lucidamente radiografato e talmente imperativo da non dare adito a dubbio alcuno, si accompagna pertanto la scelta del tutto volitiva di perseguire la “normalità”, senza curarsi delle possibili conseguenze, che iniziano a palesarsi quando Sonoko risponde al corteggiamento innamorandosi sinceramente, sicché sul narratore iniziano a pesare aspettative di impegno sempre più pressanti da parte di parenti, conoscenti, amici.

Si oppongono in questo modo per tutto il romanzo la realtà e la maschera, la vocazione e la volontà, in un gioco continuo e sfibrante di rilanci, di sovrapposizioni, di reciproche sconfessioni. Ma l’omosessualità non concede illusioni e ha infine la meglio: ritrovata e corteggiata nuovamente Sonoko (dopo che, essendo stata lasciata, si era sposata con un altro uomo), nell’ultima pagina del romanzo il protagonista riesce a convincerla a recarsi insieme con lui in un luogo sconveniente (una balera frequentata da giovani), ma finisce col dimenticarsi della donna per incantarsi a contemplare un aitante ragazzotto.

Sorprendono, fin da questo esordio, la franchezza e l’estremismo dell’immaginazione cui Mishima spinge la propria pagina, su un tema a dir poco inconsueto, se non proprio tabù, per la letteratura giapponese dell’epoca. Non solo infatti discetta dei propri desideri nei confronti dei coetanei e dei ragazzi più giovani, nonché delle sue recidive cattive abitudini (masturbatorie), ma lascia anche libero sfogo al proprio peculiare immaginario, che intreccia continuamente desiderio sessuale, ossessione per il vigore fisico, violenza, sangue, tortura, morte (anche la propria, con ripetute fantasie di sacrificio e suicidio), e persino cannibalismo nella più sfrontata (e divertente) di queste derive della mente.

Sorprende poi il parterre tutto occidentale che Mishima convoca per dare sostanza alle sue riflessioni: dal Dostoevskij posto in esergo si continua con Huysmans, Zweig, Wilde, Hirschfeld, e persino San Giovanni e Sant’Agostino, senza contare riferimenti a intere tradizioni di arte figurativa, dalla scultura greca al tema iconografico del martirio di San Sebastiano (è di fronte a una riproduzione della versione di Guido Reni che l’autore scopre come usare il suo “giocattolo”). Ciò permette al lettore occidentale di godere di un certo sentore esotico muovendosi pur sempre fra stanze familiari, senza mai essere spaesato, anche perché quando qualcosa occorre sapere del Giappone dell’epoca, è lo stesso Mishima a darci tutte le informazioni necessarie.

Confessioni di una maschera è uno dei primi lavori di Mishima a essere stato tradotto in italiano, ma come molte delle sue opere vi era di mezzo un’ulteriore traduzione in inglese. Chi voglia leggerlo in una versione più accurata può ora ricorrere alla nuova traduzione inclusa nei due Meridiani dedicati allo scrittore, che si basano sugli originali giapponesi.

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